Il debito pubblico italiano è decisamente molto alto. A metà del 2023 l’Italia aveva accumulato un debito di oltre 2800 miliardi di euro. L’ultima rilevazione di Banca d’Italia (14 marzo 2024) lo attesta a 2.849 miliardi di euro. A parte l’impressione delle cifre, un debito pubblico in linea generale non è quasi mai un problema se l’uso è virtuoso. Soprattutto, non è un problema se il paese indebitato è comunque in grado di pagare gli interessi, in questo l’Italia è ampiamente accreditata. E allora, perché si parla di debito fuori controllo?
Sono quelle frasi a effetto usate dalla politica per creare nocumento alle forze di maggioranza, salvo poi esserne vittime quando torneranno loro ad essere maggioranza. Un caso reale di debito fuori controllo, nella storia recente, si è verificato con la Grecia, ed è bene rinfrescare la memoria di quanto accadde nella crisi greca.
di Luca Lippi
Crisi greca: la nascita
La storia recente della Grecia è stata un po’ più turbolenta di altri Paesi europei. Nel 1967 avevano ancora la dittatura dei colonnelli riuscendo a liberarsene nel 1974. Kōnstantinos Karamanlīs, rientrando dall’esilio, formò un partito denominato Nuova Democrazia. Ebbe subito come obiettivo la creazione di un sistema politico inclusivo accompagnato da un’economia liberale di mercato. Il ruolo del premier ellenico è stato fondamentale per la storia della Grecia, dato che nel 1975 fece approvare la Costituzione più liberale che il paese abbia mai avuto. Dal punto di vista economico invece, Karamanlīs adottò un’economia di mercato caratterizzata da forti investimenti strategici e un potente incremento della rete infrastrutturale. Lo scopo della modernizzazione del paese aveva l’obiettivo di far sventolare la nuova bandiera greca tra le altre della Comunità Europea.
Crisi greca: la successione
A Kōnstantinos Karamanlīs succede Andreas Geōrgios Papandreou, fondatore del partito socialista ellenico (Pasok). Gli analisti politici lo ritengono responsabile del deterioramento del sistema politico ellenico. Il leader del Pasok manifestava in tutti i suoi discorsi l’insofferenza per l’establishment presente sia nel Paese sia all’estero. Opposto al popolo greco reso troppo “puro” dalla politica moderata e inclusiva di Karamanlīs che sosteneva la concertazione di tutte le forze politiche. Questa politica, secondo Papandreou, avrebbe indotto gli osservatori stranieri a sottovalutare la forza del popolo greco di fatto sfruttandolo.
Il governo di Papandreou (1981/1989) fu caratterizzato per il clientelismo, una strategia nota non solo alla politica greca. La distribuzione dissennata di risorse dello stato in favore dei cittadini fu letta dai commentatori politici greci come il mezzo per ottenere consensi – sarebbe troppo semplice, ma inevitabile, il paragone con un politico italiano contemporaneo, cintura nera in questa pratica perniciosissima -.
I risultati di questa politica si traducono in dati economici incontrovertibili. Prima dell’arrivo al potere di Pasok, gli impiegati nel settore pubblico ammontavano a 510 mila su una popolazione totale di dieci milioni di persone (1979). Alla fine dei due mandati di Pasok, gli impiegati pubblici diventano 786 e duecento su una popolazione complessiva rimasta invariata (1990). Il fatto che non c’era un aumento della popolazione avvalora la tesi della patetica ricerca di puro consenso. Il danno, però, non si è limitato solo a questo: la retribuzione degli impiegati del settore pubblico era sensibilmente più alta del settore privato. Altri effetti catastrofici dell’amministrazione Pasok, emergono dalla spesa in pensioni aumentata vertiginosamente. Dalle baby pensioni alle continue finestre di uscita anticipate dal mondo del lavoro. Tutto questo ha portato all’esplosione in dieci anni del rapporto debito PIL della Grecia che dal 22,5 per cento schizzò al 73,2 per cento.
L’espansione della crisi greca
Dopo la caduta di Papandreou i successori tentarono in ogni modo di correggere la pessima deriva presa dal Paese. Kōnstantinos Mītsotakīs (1990/1993) tagliò la spesa pubblica e fece approvare riforme per il servizio civile. L’obiettivo era quello di preparare la Grecia ad entrare nella Comunità Europea. Siamo negli anni del completamento del Mercato della moneta unica, la Grecia non poteva perdere l’opportunità di far parte di una comunità che l’avrebbe costretta a una stabilità politica, istituzionale e economica.
I tentativi di Mītsotakīs produssero un effetto controproducente relativo al consenso politico, tale da vederlo sconfitto dopo soli tre anni dal vecchio Papandreou che riprese le sue politiche insostenibili. Tuttavia Papandreou, per motivi di salute, nel 1996 lasciò l’incarico a Kōstas Simitīs (sempre di Pasok) che, a differenza di Papandreou, era un tecnocrate moderato. Questa cosa fu molto importante perché nei suoi anni di premierato (1996/2004) Simitīs tentò di andare controcorrente rispetto al suo partito. Approvando delle riforme economiche del mercato del lavoro per armonizzare l’economia greca all’entrata nella UE.
La sconfitta del Pasok
Lo sforzo del premier non è stato sufficiente perché ormai il Pasok era l’emblema del populismo e della corruzione, due elementi che decretarono la sconfitta elettorale di Kōstas Simitīs.
Fino al 2009 gli succedette Kōstas Karamanlis (Nuova Democrazia), nipote di Kōnstantinos, purtroppo non degno del virtuoso zio. Il neo premier prese atto che per governare a lungo la strada delle politiche clientelari era l’unica via percorribile. Quindi Nuova Democrazia si scopre “socialista” sul modello di Pasok avviando la stagione delle disfunzionalità: due partiti, apparentemente opposti, che usano le medesime armi per restare al potere a danno dell’economia e dei cittadini.
Dal 2000 al 2008 la Grecia viola sistematicamente le regole del patto di stabilità – non la sola invero – facendo deficit. Ma, soprattutto, senza correggere la china del debito pubblico che nel periodo rimase costantemente sopra il cento per cento.
La caduta
Nel 2009 il leader di Pasok Geōrgios Papandreou (figlio di Andreas) diventa capo del governo ellenico e rivela che il deficit del 2009 non sarà al 6,7 per cento del PIL (come promosso dal predecessore) ma al 12,7 per cento. Nella realtà, il dato poi si rivelerà anche peggiore, 15,4 per cento. Il motivo di questa “confusione” risiede all’interno dell’Istituto di statistica nazionale greco.
I dati delle finanze pubbliche erano stati costantemente alterati, il fine era potere fare più debito ottenendo più voti. Nel 2010 la Commissione europea arrivò ad affermare che non riponeva alcuna fiducia nei dati forniti dalla Grecia, ne seguì la relativa condanna.
Allo stato dell’arte, i mercati – che odiano l’instabilità figurarsi la produzione di dati falsi – manifestarono tutto il loro scetticismo obbligando S&P a declassare i titoli di stato greci a “spazzatura”. I tassi di interesse sui titoli greci salirono vertiginosamente, al punto tale che Atene dovette smettere di indebitarsi per i costi irragionevoli. Portando il paese alla “bancarotta”. Tra il 2009 e il 2013 la Grecia perse il 29,5 per cento del proprio PIL reale; il debito esplose dal 126,7 per cento al 178,8 per cento. Il tasso di disoccupazione aumentò dal 9,6 per cento al 27,5 per cento.
Gli effetti sociali della crisi impattano senza riguardo sulla popolazione e si affacciano alle cronache due termini ignoti ai non addetti ai lavori: bail-out e austerity. Bruxelles non poteva rimanere a guardare, lasciare fallire Atene avrebbe significato il fallimento e il discredito di tutta la struttura UE, sia in termini di potere di controllo, sia in termini di “mutua assistenza” di tutto il sistema.
Il piano di salvataggio
Siamo al maggio 2010, l’UE unitamente al FMI e la BCE, negoziarono un piano di salvataggio con il Governo greco. Il primo salvataggio fu di 110 miliardi interamente garantito da tutti gli Stati Membri e l’IMF (Fondo Monetario Internazionale) in cambio di riforme e forti misure di austerità. A seguire, la Grecia doveva ridurre drasticamente il numero delle compagnie pubbliche, rimodulare al ribasso – quando impossibile azzerare – le partecipazioni statali e aumento immediato delle imposte dirette (IVA). Il 12 maggio 2010 fu ufficializzata la riduzione del deficit del 40 per cento. Tanto e tutto insieme ridusse alla fame una enorme fetta di popolazione, non mancarono quindi feroci proteste.
Il 2012 parte col secondo piano di salvataggio per la Grecia, concordato tra la Ue e il governo greco guidato da Loukas Papadīmos, economista e primo ministro tecnico dal novembre 2011 al maggio 2012. 130 miliardi di euro in cambio della riduzione del rapporto debito/Pil dal 160 per cento al 120 per cento entro il 2020.
Il referendum di Tsipras
Il terzo e ultimo piano fu concordato tra la UE e Alexīs Tsipras. Dopo un braccio di ferro più di forma che di sostanza. Tsipras aveva incantato tutti in campagna elettorale promettendo la rinegoziazione dei due piani di salvataggio precedenti, la cancellazione del debito e il ritorno all’aumento della spesa pubblica. Una serie di pretese – non “inapplicabili” – inaccettabili per la UE perché del tutto avulse dai principi fondanti dell’unione monetaria. Tsipras usò lo specchietto per le allodole – neanche un atteggiamento pilatesco – del referendum nel quale si chiedeva ai cittadini se il terzo piano doveva essere accettato o meno.
Andò male perché – ovviamente – i cittadini votarono per il NO al sessanta per cento. I mercati presero in mano la situazione sollevando da ogni responsabilità sia Tsipras sia la UE, facendo esplodere lo spread e aumentando la pressione sul Paese al punto tale che Tsipras andò platealmente in testa-coda e accettò il piano di salvataggio sottoscrivendo le condizioni annesse: riforma fiscale, ulteriore taglio della spesa pubblica, nuove privatizzazioni di asset statali e ulteriori riforme del mercato del lavoro; tutto questo per ottenere 86 miliardi di euro.
La Grecia oggi
La drasticità delle misure hanno dato buoni frutti! A che prezzo sarà forse il tema di un’altra trattazione, si sa che la storia racconta la verità dei vincitori, quasi mai parla delle vittime. Dal 2016 al 2019 il bilancio fiscale della Grecia è certificato in positivo e con il trend in costante miglioramento. Sempre nello stesso periodo il PIL della Grecia è cresciuto attestandosi costantemente tra l’1,1 per cento e l’1,9 per cento (dati FMI). Dalla caduta dell’inconsistente Tsipras il popolo greco ha eletto Kyriakos Mītsotakīs di Nuova Democrazia. Il premier, ormai al suo secondo mandato, già prima del suo primo mandato godeva di apprezzamenti politici internazionali. L’azione di governo di Mītsotakīs non ha deluso le aspettative, dal 2019 il processo di digitalizzazione del paese ha preso velocità, sono state ridotte le imposte sul reddito delle società dal 29 per cento al 24 per cento, la disoccupazione è scesa dal 17,3 per cento al 10,8 per cento (certificato al 2023), dati decisamente incoraggianti al momento.
Conclusione
Al netto di affermazioni banali (e non condivisibili fino a prova contraria) sulla bontà delle politiche di austerity della UE – ci sono molti fallimenti e disperazione di migliaia di famiglie dietro un salvataggio che poteva essere meno invasivo – l’unica verità sta nel fatto che politiche di deficit senza controllo, soprattutto politiche clientelari, sono lo scivolo verso il baratro. Se la fine della prima repubblica aveva messo in discussione certe pratiche politiche, in parte abbandonate dalla seconda (fatto salvo le pensioni a mille euro!), purtroppo il pericolo si è riaffacciato proprio nel 2018 col “nuovo che avanza”. Forse è il caso di riflettere un po’ di più sulla professionalità in politica, ma anche sulla sovranità popolare perché l’una esclude l’altra, lo dice la Storia.