L’inflazione rilevata a giugno risulta in netto calo. Buona notizia solo sulla carta perché dietro certi dati ce ne sono tanti altri da approfondire. E mentre i media provano a tenere alto il tenore di fiducia dei consumatori con titoli poco realistici, è giusto che – per i più attenti – si fornisca una panoramica il più possibile in linea con la realtà
Il nostro Paese segna a giugno un tasso di inflazione di 6,4% – dieci mesi fa era all’11,8% – . Tuttavia la Spagna ha fatto meglio di noi: a giugno segnava un tasso di inflazione al 1,9%; ma questo dipende, soprattutto, dalle politiche economiche dei singoli Paesi che sono inevitabilmente differenti. In questo contesto, la politica monetaria della BCE promuove politiche comuni, cercando di fare una media di tutti i paesi dell’area Euro ma senza potere tenere conto delle politiche economiche dei singoli.
L’unico Paese dell’aera Euro che non risponde con linearità al calo dell’inflazione è la Germania. Dopo una buona performance nel mese di maggio, vede aumentare nuovamente la sua inflazione a giugno. Questo dato è più importante degli altri perché – lo ricordiamo – la Germania è la più grande economia dell’area Euro e vale il doppio di quella italiana.
Al dato medio europeo che attesta l’inflazione omnicomprensiva – ci sono dentro tutti panieri – al 5,5 per cento nel mese di giugno, si contrappone l’inflazione CORE (o strutturale) – è quella cui fanno riferimento tutti i banchieri centrali ed elimina dal paniere tutte le componenti più volatili – che si attesta a giugno al 5,4 per cento (in aumento rispetto a mese precedente) e ha un andamento molto meno confortante dell’inflazione descritta dai media.
I nodi vengono al pettine
L’Italia cresce a ritmi molto lenti e poco influenti e al contempo il potere di acquisto delle famiglie diminuisce. Secondo un adagio particolarmente noto a chi si occupa professionalmente di Finanza, la cura dei prezzi alti sono i prezzi alti. Che vuol dire? L’aumento dei prezzi contro un non aumento dei salari – quindi riduzione del potere di acquisto delle famiglie – si porta dietro il calo dei salari in termini reali.
La dinamica che si aziona è che i prezzi salgono a causa dell’inflazione, le famiglie non riescono a stare dietro a questi rialzi e quindi riducono i consumi, la riduzione dei consumi rallenta la domanda, il rallentamento della domanda raffredda il rialzo dei prezzi.
In conclusione l’inflazione non può crescere in modo prolungato se non crescono gli stipendi. Questo fenomeno si chiama disinflazione, ed ecco spiegato il disallineamento tra inflazione e inflazione CORE.
Tuttavia si introduce un altro aspetto che riguarda la determinazione reale dell’andamento futuro dell’inflazione.
Quali prospettive economiche
Per questo si deve monitorare l’indicatore Composite PMI, l’indicatore dei direttori acquisti. Il valore è determinato dalla percentuale di materie prime da acquistare in base agli ordini noti futuri. Ovviamente gli acquisti sono al netto delle rimanenze di magazzino. Questo indicatore, quando è superiore a 50 indica che gli ordinativi sono in crescita, quando è sotto i 50, segnala una contrazione.
In Italia questo indicatore oggi è sotto 50. I servizi reggono, ma la manifattura è in profondo calo. Ricalca in grandi linee il Composite PMI dell’area Euro che segna l’indice a 49,9 -più nel dettaglio, 52 per i servizi e 43,4 per la manifattura – e per la velocità con cui si sono determinati questi cali manifesta un deterioramento piuttosto veloce del contesto economico.
Cosa puo’ succedere
A guardare altri dati, se la Bce si ferma ora col rialzo dei tassi, l’inflazione potrebbe continuare a salire. Perché gli indici di Borsa sono ai massimi e la disoccupazione negli USA – la più grande economia del mondo – è ai minimi.
Questo spiega perché la gente continua ancora a spendere nonostante i prezzi alti, vede i propri depositi titoli crescere e non ha la percezione di stare a spendere più di quello che guadagna. Quindi ci sarà un altro rialzo dei tassi di almeno 0,25% – portando i tassi di interesse al 4% – e questo scenario potrebbe essere concreto anche a settembre.
Potere economico e potere monetario
L’inflazione elevata mangia il debito, i governanti lo sanno benissimo. Ma è anche noto che l’inflazione rallenta la crescita e quindi il potere economico (politico) si oppone al potere monetario perché necessita del consenso più che della soluzione strutturale dei problemi.
Naturalmente il potere politico cercherà di sostenere il Mercato invogliando famiglie e imprese a spendere (le prime) e investire (le seconde), cercando di aumentare il clima di fiducia. Dall’altra parte il potere economico deve trovare il modo di fare attecchire la disinflazione e quindi proseguirà a alzare i tassi.
L’aumento dei tassi provocherà una sostanziale difficoltà di famiglie e imprese nell’accesso e gestione del credito, soprattutto quelle più in difficoltà che, oltre l’aumento del costo dei finanziamenti, dovrà sopportare anche l’inasprimento delle aziende creditrici che vedendo aumentare il costo del denaro subiscono anche un aumento del rischio.
Su questo i primi ad andare in difficoltà sono le famiglie che chiederanno surroghe e le aziende che cercano nuovo denaro per rinegoziare i vecchi indebitamenti.
Si creerà uno stallo (credit crunch) che non potrà avere ripercussioni positive.
La logica imporrebbe di agganciare un algoritmo che aumenti i tassi di interesse in linea con l’aumento dell’inflazione, ma questo taglierebbe fuori totalmente il potere politico, e questo è impossibile! Le scelte di politica monetaria non sono mai semplici e soprattutto popolari. Quando la politica non sa dove mettere le mani si nasconde dietro lo scudo dei governi tecnici.
Prevedere l’inflazione è difficilissimo; pianificare una politica monetaria graduale e non invasiva presupporrebbe l’individuazione di indicatori immediati, ma questi non si muovono mai all’unisono e costringono le banche centrali a dover rincorrere soluzioni urgenti quasi mai anestetizzabili.