Gli stanziamenti previsti dal PNRR per il sistema salute non bastano e sulle imprese di settore gravano l’aumento dei costi energetici e delle materie prime. Le risorse attese dal Payback potrebbero essere recuperate nelle pieghe del DEP a primavera
di Katrin Bove
Intervistiamo Massimiliano Boggetti, laureato in Biologia molecolare all’Università degli Studi di Milano, Chief Executive Officer di Diesse Diagnostica Senese. È stato Presidente di Assobiomedica ed è membro del Consiglio Generale di Confindustria e presidente di Confindustria Dispositivi Medici Servizi.
Lei di recente ha dichiarato che il payback non rappresenta uno strumento di contenimento della spesa, ma un forte danno per la salute dei cittadini. Può spiegare questa sua affermazione?
Il nostro Paese è uno dei pochi che garantisce un servizio universalistico e pubblico. Il problema è che questo servizio ha un costo alto e i tagli alla sanità che vengono operati da anni, certamente non aiutano a garantirlo. Il risultato è che oggi ci troviamo in una situazione caratterizzata da bassi investimenti per la salute dei cittadini, in termini di rapporto col PIL rispetto ai Paesi sviluppati.
Questo comporta avere ospedali con tecnologie obsolete, molti macchinari sono vecchi e si registra una carenza importante di personale sanitario, sia medico, sia infermieristico. Tutto questo si traduce in liste d’attesa eterne e in una popolazione che non è in buona salute. In questo contesto, la tassa del payback, che va a gravare sulle imprese, sottraendo loro risorse, ha come conseguenza il fatto che diminuiscono gli investimenti per le tecnologie di ultima generazione.
Il risultato è che se già oggi l’Italia è in cattiva salute, rischia di esserlo ancora di più, perché di fatto questo provvedimento impoverisce le risorse destinate alla sanità.
Che risposte ci sono state a questa presa di posizione sua e di Confindustria?
Il Governo – che si è trovato ad ereditare una situazione che si trascina da troppo tempo – ha preso atto che esiste un problema grave, perché le coperture finanziarie non ci sono, ma l’urgenza di investire nel sistema sanitario è altrettanto chiara.
Il punto, adesso, sarà quello di trovare le risorse, perché è evidente che lo strumento del payback, che richiede indietro alle aziende fornitrici una parte dei soldi, non può essere una forma strutturata attraverso la quale il Governo fornisce salute ai propri cittadini.
Le strade sono sostanzialmente due: o lo Stato dice ai cittadini che le risorse non possono più garantire una sanità pubblica universalistica, oppure mette mano ad un piano di recupero di risorse, nelle pieghe del DEP della prossima primavera, che vadano nella direzione del rifinanziamento, che può derivare da una riconversione di risorse previste su altre voci di spesa meno prioritarie o recuperando il sommerso.
Tra l’altro, penso che sia stato un errore fondamentale non aver avuto accesso ai soldi del MES: avrebbero potuto essere risorse da iniettare nel sistema per mettere mano alle carenze attuali. Basta solo pensare al fatto che nel 2030 il 50% della popolazione italiana sarà over 60 ed è evidente che la soluzione non può essere quella che qualcuno ha paventato, di usare il TFR per previdenza integrativa o piani sanitari integrativi, a meno che non si voglia dire ai cittadini che ci sono dei servizi che lo Stato non è più in grado di fornire e rispetto ai quali i cittadini devono far fronte alle loro necessità in maniera personale.
A suo avviso, gli interlocutori governativi sono consapevoli che se le cose rimanessero così come sono, sarebbe compromesso il diritto pubblico alla salute?
La mia aspettativa è che ci sia da parte dei soggetti tecnici, a cominciare dai Ministri, questa consapevolezza, perché la situazione è certificata da tutti gli ossservatori del sistema salute, che da anni sostengono che la quota destinata al SSN è insufficiente.
Il tema non è la comprensione, ma quello di mettere mano ad una spesa consistente e questo rappresenta una scelta strategica. Oltretutto, quest’anno gravano sul SSN l’aumento dei costi energetici e delle materie prime e questo vuol dire che ci sono molte meno risorse rispetto agli anni scorsi per curare i cittadini.
Il problema riguarda anche questi ultimi, che penso non abbiano compreso fino in fondo quanto la loro salute sia a rischio e quanto si vada verso un sistema sanitario a due marce: chi ha disponibilità economica potrà curarsi nelle strutture private con tecnologie all’avanguardia e con medici competenti; chi è costretto ad accedere al servizio pubblico, rischia di non avere tecnologie nuove, oltre a non disporre di assistenza adeguata per la carenza di personale.
Oltre alla questione del payback, il comparto “dispositivi medicali” quali altre problematiche deve affrontare?
Il principale problema deriva dalla pressione fiscale che nel nostro caso aumenta ancora a causa di due tasse che il nostro comparto ha e gli altri non hanno: la prima sulle attività fieristiche; la seconda è lo 0,75% sui fatturati delle imprese.
L’altra sfida importante è quella produttiva: oggi non siamo più in un mondo globalizzato, ma polarizzato e molte delle materie prime non sono prodotte in Italia, molta parte della produzione di “dispositivi medici” non è realizzata in Italia e quindi c’è anche un tema che riguarda la capacità di approvvigionarsi, dei costi delle materie prime e della loro disponibilità.
Poi, c’è un tema regolatorio, che pone delle grandi opportunità per il comparto, perché lo rende più sicuro per operatori e pazienti rispetto alla qualità dei prodotti, ma comporta dei costi molto significativi.
Infine, c’è un tema dimensionale, nel senso che che la “partita” del comparto “dispositivi medici” si gioca sulla dimensione e le aziende italiane non hanno una dimensione simile ai loro concorrenti: l’azienda più grossa al mondo di “dispositivi medici” fattura 300 miliardi l’anno, mentre l’azienda più grossa italiana fattura un miliardo. Anche qui la scelta è politica: volere o non volere che il comparto salute sia un comparto strategico per l’Italia, da difendere, da promuovere e da sviluppare.