LA VITA DI MOLTI INVENTORI NOSTRI CONNAZIONALI E’ STATA DIFFICILE IN PASSATO. E SPESSO RIMANE TALE. PERCHE’ E’ ARDUO FAR PASSARE L’IDEA DAL LABORATORIO ALL’INDUSTRIA
di Laura Politi
Nell’ambito delle telecomunicazioni, il vocabolario Treccani definisce l’interferenza come “qualsiasi azione che venga esercitata su una comunicazione da un’altra comunicazione o da un segnale estraneo, dando luogo, in conseguenza, a disturbi e ad alterazioni varie nella comunicazione che interessa”. Il termine sembra appropriato anche per definire le difficoltà che alcuni geniali inventori hanno incontrato sul loro cammino. Nella storia del nostro Paese, il percorso che porta dal laboratorio all’industria è stato spesso accidentato, non sempre agli scienziati sono stati riconosciuti i dovuti meriti. Se per tutti oggi il nome di Alessandro Volta è legato alla pila elettrica, più raramente si ricordano la sua invenzione dell’elettroforo perpetuo o la scoperta del gas metano. Se oggi si parla di “fuga di cervelli”, già nel passato Antonio Meucci e Guglielmo Marconi ne sono stati in qualche modo vittime.
“Volta, Meucci e Marconi sono protagonisti della storia scientifica di questo Paese. Una storia straordinaria di invenzioni, che hanno dato il via a vere e proprie rivoluzioni tecnologiche e a cambiamenti epocali nel nostro modo di vivere e di comunicare. Le loro storie ci fanno tuttavia interrogare su quanto nel tempo l’Italia abbia saputo trattenere di questo immenso patrimonio di conoscenze, traducendole in sviluppo e crescita economica, posti di lavoro, asset per il Paese”, commenta Cristina Battaglia, responsabile dell’Unità valorizzazione della ricerca del Cnr. “L’argomento è attualissimo e sempre più complesso in un mercato globale, e richiede una grande attenzione non solo alla tutela delle idee ma alla capacità di investire su di esse, sulla loro applicazione e sulla traduzione in valore e in sviluppo industriale”.
Guglielmo Marconi (1874-1937), inventore della radio, vincitore del Nobel per la fisica nel 1909 e presidente del Consiglio nazionale delle ricerche dal 1927 fino alla sua morte, dovette abbandonare la terra natia per brevettare il suo telegrafo senza fili nel Regno Unito. “L’Italia, come ai tempi di Marconi, continua a vantare primati scientifici internazionali in molti settori e ambiti con una produttività scientifica rilevante per qualità e quantità. Certamente il sistema evidenzia ancora debolezze sotto il profilo della capacità di tradurre i risultati scientifici in applicazione tecnologiche e in sviluppo di innovazioni a servizio delle imprese e del Paese”, continua la ricercatrice. “In questo senso c’è un grande sforzo in atto da parte degli Enti di ricerca e, in generale, del sistema pubblico della ricerca, ma con investimenti sul trasferimento tecnologico e sulla valorizzazione dei risultati della ricerca ancora bassi, ne è un esempio lo scarso numero di persone impiegato in questo settore, e con un impianto burocratico che mal si sposa con la necessità di flessibilità e di tempistiche rapide che il rapporto con le imprese richiede”.
Marconi non è stato certamente il solo a scontrarsi con problematiche relative alla brevettazione. Un tributo va senza dubbio reso ad Antonio Meucci (1808-1889) che, impossibilitato a causa delle sue condizioni economiche a rinnovare il brevetto rilasciatogli nel 1871 negli Usa, si vide defraudato da Alexander Graham Bell, che nel 1876 presentò un brevetto di telefono. Il lungo oblio di Meucci da una parte e il riconoscimento di Bell dall’altra portano a interrogarsi sul differente approccio adottato dai due paesi nella trasformazione della ricerca in sviluppo industriale e ricchezza. “Vi è una grande differenza tra Italia e Stati Uniti nel modo in cui viene gestito e attuato il rapporto tra industria e ricerca. Sono differenze che hanno radici lontane: differenti quadri normativi che hanno regolato la tutela della proprietà intellettuale sviluppata dalle Università, differenze culturali, differente organizzazione e gestione del sistema della ricerca. In questo senso non è il ‘modello’ statunitense che può esserci di esempio per consolidare i legami tra ricerca e sistema delle imprese”, sostiene Battaglia. “Una considerazione generale però va fatta, ispirandosi in qualche modo al passato ed alla storia di Meucci: il nostro Paese deve saper riconoscere le proprie eccellenze scientifiche e tecnologiche, valorizzarle, tutelarle e promuoverle a livello internazionale”.
I dati rilasciati dall’Epo (European Patent Office) nel Rapporto 2019 consentono di analizzare la situazione della brevettazione attuale. Secondo i numeri dell’Epo, le domande di brevetto italiane sono state 4.456, con un aumento dell’1,2% rispetto all’anno precedente. L’Italia si trova al decimo posto, immediatamente dietro al Regno Unito (che ha registrato un aumento del 6,9%), mentre il primo posto della classifica è occupato dagli Stati Uniti, con 46.201 domande e un aumento del 5,5% rispetto al 2018. “I dati sulla brevettazione vanno letti in relazione agli investimenti in ricerca, al numero di ricercatori ma anche alla struttura imprenditoriale del Paese, che in Italia vede una prevalenza di imprese piccole e piccolissime che trovano maggiori difficoltà ad affrontare percorsi di tutela della proprietà intellettuale rispetto alle medie e grandi imprese. Con questa premessa possiamo dire che le performance dell’Italia, che possono e devono certamente migliorare, sono comunque soddisfacenti”, conclude Battaglia. Dobbiamo però ritornare alle questioni già affrontate e che riguardano i brevetti generati dalla ricerca pubblica: quanti di questi si traducono in prodotti, in miglioramento di processi, in innovazioni utili alle imprese e alla società? Ancora pochi rispetto agli altri Paesi e su questo è necessario interrogarsi e trovare soluzioni. (www.almanacco.cnr.it)