di Gianluca Chiovelli
La pandemia da Covid-19 ha accelerato il processo di trasformazione dell’uso del digitale da scelta libera a scelta obbligata
Il mezzo digitale, inteso nel senso più ampio, costituisce una realtà effettiva sin dagli anni Ottanta sebbene il suo uso fosse riservato a un numero di utenti insignificante rispetto alla platea mondiale.
In pochi decenni, tuttavia, grazie alla praticità e al favorevole rapporto costi-benefici, il digitale si è imposto con velocità vorticosa tanto da soppiantare definitivamente le vecchie tecnologie e i modi di produzioni negli ambiti più diversi: dai rapporti fra le aziende private ai rapporti con l’amministrazione statale, dall’insegnamento scolastico e universitario all’informazione, dalla gestione delle risorse alimentari all’organizzazione di qualunque lavoro, più o meno avanzato. Del pari, l’industria del tempo libero e i social viaggiano al ritmo del digitale sconfinando, spesso, nel virtuale (i primi e più seri esperimenti di virtual reality – cioè di quella realtà trasformata e trasferita nel digitale con cui gli umani possono interagire – risalgono a metà degli anni Settanta).
La creazione di un web, di una rete d’inteconnessione mondiale sempre più diffusa e raffinata, si accresce continuamente assieme all’evoluzione dei dispositivi, oggi d’eccezionale duttilità e praticità, , in media, accessibili alla maggior parte di noi.
Si può affermare, senza tema d’essere smentiti, che grazie a un computer di buon livello, a uno smartphone e a una smart TV, un individuo del Ventunesimo Secolo si avvia a divenire quasi autosufficiente verso il mondo esterno: ovvero nei riguardi di quel mondo che, con una punta di cinismo, egli avverte datato come un registratore a cassette.
La recente pandemia da Covid19 ha accelerato, volenti o nolenti, questa attitudine dell’uomo postmoderno: il digitale, da scelta libera, si avvia a rendersi strutturale presso ogni settore della vita umana.
Ciò ha recato, inevitabilmente, a una straordinaria moltiplicazione dei device tecnologici al punto che ognuno di noi ne usufruisce o ne dispone in quantità durante la giornata, e ciò al di là delle differenze sociali, anagrafiche o di rango lavorativo.
Basti pensare che le IoT, acronimo di Internet of Things, il numero brutale di “cose” che permettono di interagire, interconnettersi e scambiare dati, assommavano nel 2018 a 22 miliardi di unità (il triplo della popolazione mondiale); la stima, per il fatidico anno 2030, si aggira sui 50 miliardi di unità. Un numero incredibile anche se probabilmente sottostimato se si pensa che la diffusione del digitale in aree economiche tradizionalmente arretrate, ma oggi in rapidissimo sviluppo, pare esponenziale.
Nel mezzo di tale progresso inarrestabile in cui tutto cambia rimane, tuttavia, un elemento immutabile: l’occhio. L’occhio, la delicata e miracolosa costruzione al centro degli studi e delle dispute dei biologi e degli evoluzionisti d’ogni tempo, questo delicato sensore cui occorsero cento milioni di anni per formarsi definitivamente, come reagirà a un’esistenza futura sicuramente basata sulla continua consultazione di congegni digitali?
Secondo un’indagine Lenstore “in media, nel mondo le persone spendono 9 ore e 45 minuti di fronte a dispositivi digitali”. Un lasso di tempo apparentemente spropositato, ma del tutto coerente con l’attuale stile di vita che quasi tutti noi conduciamo: nel conteggio, infatti, va sommato non solo il tempo del lavoro e della comunicazione privata (messaggi, mail), ma anche quello del puro divertimento (giochi da consolle, da cellulare etc) e dell’intrattenimento (schermi LCD e LED) che, nato per rilassare, causa, al contrario, ulteriore massa di lavoro per gli occhi.
“Il 75% dei medici di base e degli oculisti” prosegue la ricerca “hanno notato un aumento dei problemi connessi alla salute degli occhi rispetto a 10 anni fa … [mentre il] 19% dei medici di base afferma che l’utilizzo eccessivo della tecnologia costituisce la causa principale dell’emergere di queste problematiche” che vanta picchi dell’80% nei millennials europei.
Tali insieme di disturbi vanno sotto il nome di CVS (“Computer Vision Syndrome”) o “Sindrome da schermo elettronico”, altrimenti nota come DES (“Digital Eye Strain”) che potremmo tradurre come “Affaticamento della Vista dovuta al Digitale” o, con un più conciso termine tecnico, “astenopia”. La sovraesposizione alla luce blu degli schermi determina, infatti, lo stress della muscolatura dell’occhio nonchè uno squilibrio fra specie ossidanti e antiossidanti che possono compromettere la piena efficienza e la tenuta della retina.
Secondo una ricerca estensiva condotta negli Stati Uniti dall’associazione di categoria “The Vision Council”, che raggruppa, senza scopo di lucro, produttori e fornitori nell’industria ottica, i sintomi più frequenti consistono, in egual percentuale, in dolori prolungati alla cervicale e alle spalle, mal di testa, visione sfocata, secchezza degli occhi. Le differenze d’età (fra over 60 e adolescenti, soprattutto) incidono ancora, ma i dati si stanno col tempo omogeneizzando sino a quelli generali:
a) il 90% rimane davanti a un visore per due o più ore al giorno
b) il 65% soffre conseguentemente di disturbi da Digital Eye Strain (il 75% di chi usa due o più dispositivi; il 53% di chi ne usa solo uno)
I dati concernenti gli Stati Uniti, pur risalenti al 2016, sono un fotografia della situazione altamente indicativa dello svolgersi del fenomeno in Occidente per la vastità del campione e la forza che vanta un’analisi condotta nel paese più tecnologicamente avanzato del mondo. Ma anche nei paesi in via di sviluppo, come si evince da Lenstore, la dipendenza dal digital screen è sbalorditiva: è il Sud-Est asiatico a primeggiare nelle classifiche (Filippine con 14,27 ore di consultazione giornaliera, Thailandia 13,36) assieme al Sudamerica (Brasile 13,42; Colombia e Argentina oltre le 12).
Le cifre sono talmente eloquenti da vanificare le eventuali obiezioni.
Come arginare, quindi, gli eventuali danni a lungo termine derivanti da una pratica sempre più pervasiva?
L’igiene, ovvero la salvaguardia della salute, nell’ambito del DES consiste in una serie di regole di buon senso che possiamo raggruppare nelle “categorie delle due A”: AMBIENTE e ABITUDINE, intese come cura dell’ambiente in cui si opera e analisi dei nostri comportamenti nel rapporto con i device digitali.
– Per AMBIENTE s’intende, perciò, lo spazio in cui si entra in contatto col mezzo digitale – uno spazio, quindi, che dovremo studiare con cautela specie in vista di un’era futura in cui lavoro smart, studio e residenza potrebbero coincidere nel medesimo luogo:
- È bene sistemare il dispositivo all’altezza degli occhi e allontanarlo dagli occhi di circa 40-60 cm regolando, di conseguenza, la grandezza del font di scrittura e la nitidezza degli stessi. Tavoli e scrivanie, quindi, dovranno essere scelti in modo da permettere tale ergonomia d’azione.
- Si evitino i luoghi in penombra o del tutto bui in modo da attutire la luminosità del visore, spesso troppo intensa.
- Si evitino, inoltre, i riflessi violenti o prolungati sullo schermo (glares) provenienti da illuminazione artificiale o da particolari elementi architettonici (finestre, vetrate) che possono ridurre la definizione degli oggetti e del testo consultati.
- È bene porre documenti o libri alla stessa distanza dello schermo in modo da permettere all’occhio la medesima focalizzazione durante lo studio o il lavoro.
– Per ABITUDINE s’intende l’adozione di comportamenti che ne soppiantino altri considerati normali, ma che risultano altamente nocivi sul lungo termine:
- Doverosa l’adozione della cosiddetta “regola del 20-20-20” ovvero prendere, ogni 20 minuti, 20 secondi di pausa fissando un punto a 20 piedi di distanza (poco più di sei metri). Tale semplice pratica consente di decongestionare sistematicamente l’occhio.
- Mai mischiare il riposo e l’attività digitale: poiché l’esposizione alla luce blu disturba il sonno o, perlomeno, favorisce un’attività cerebrale che può intralciare il regolare andamento del ristoro, è consigliabile evitare la consultazione di qualunque dispositivo almeno un’ora prima di coricarsi e di silenziarlo durante la notte in modo da non essere disturbati da messaggi o chiamate improvvise.
- Importante evitare il multitasking. La visione contemporanea di due o più dispositivi sovraccarica fisicamente e mentalmente l’utente predisponendolo alla caduta della soglia dell’attenzione e della produttività. Un comportamento, questo, assai diffuso fra le fasce più giovani soprattutto durante la Didattica a Distanza che, pur indirettamente, si presta a tale azione dispersiva.
- Cercare di mantenere fra il nostro corpo e il dispositivo che si consulta, specie quello mobile, una giusta posizione (l’inclinazione del collo dovrebbe idealmente formare un angolo di poco più di 10 gradi). Ognuno di noi, spontaneamente, tende ad allungarsi e piegarsi verso smartphone o computer originando la cosiddetta sindrome del “text neck”. Se la testa, quando è ben ritta, grava per soli 5-6 chilogrammi sui muscoli cervicali, è dimostrato come, all’aumentare dei gradi d’inclinazione del capo, corrisponda un aumento del peso da sopportare per le strutture muscolari e ossee: a 30° abbiamo un peso di kg. 18, a 60° addirittura di kg. 27! Negli adolescenti, sorta di fachiri del cellulare, lo stress ripetuto su una struttura ancor giovane derivato da una tale abitudine potrebbe recare nel tempo ad alterazioni rilevanti del rachide.
In attesa di efficaci strumenti meccanici (occhiali anti luce blu, filtri per gli schermi) l’osservanza di questo piccolo decalogo è in grado di lenire gli effetti a lungo termine di una sovraesposizione ai sempre più irrinunciabili dispositivi digitali.