Negli ultimi anni la cardiochirurgia sta cambiando direzione nell’approccio terapeutico nei confronti del paziente adulto e bambino. Una nuova strada che si porta dietro numerose esigenze di ricerca e di innovazione tecnologica per curare le ‘ferite’ del cuore, soprattutto in quei casi in cui si attende un trapianto che tarda ad arrivare.
di Flavia Scicchitano
Dottor Lorenzo Galletti, direttore del Dipartimento di cardiochirurgia, cardiologia e trapianto cardiopolmonare dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, e presidente della Società italiana di chirurgia cardiaca, quali sono le tendenze più recenti che caratterizzano la specialità della cardiochirurgia?
Sicuramente la messa a punto di interventi mininvasivi, per via percutanea, per il trattamento di determinate patologie, ad esempio per la stenosi aortica o la valvola mitrale. Nel paziente anziano, fragile o con comorbidità, la possibilità di evitare un intervento tradizionale porta maggiori probabilità di successo e riduzione del rischio di complicanze. Una novità che ‘obbliga’ gli specialisti a lavorare in team, prima e durante il trattamento, pratica che nei Dipartimenti di cardiochirurgia, soprattutto pediatrica, si è sempre messa in atto, ma adesso ancora di più si deve fare squadra. La tecnologia per la sostituzione vascolare aortica percutanea deve, infatti, essere pianificata con cardiologi specializzati nell’imaging, radiologi, cardiologi interventisti e cardiochirurghi. La cardiologia e la cardiochirurgia diventano integrate, si deve creare un ‘heart team’ nel pianificare e realizzare il trattamento. La stenosi aortica era solo un esempio, esistono 150 tipi di difetti cardiaci differenti, e questo approccio sarà sempre più necessario: la popolazione invecchia e la fragilità dei pazienti aumenta, per cui si potranno trattare con tecniche percutanee soggetti a cui prima l’intervento era negato. Ma per far questo si deve abbandonare il modo di procedere per compartimenti stagni.
Quale ruolo ha, invece, la ricerca nell’evoluzione della cardiochirurgia moderna? Quali sono i limiti che ancora oggi devono essere superati?
La ricerca è molto importante perché guardando all’epidemiologia delle malattie cardiovascolari pediatriche e dell’adulto c’è una percentuale sempre più alta di pazienti che, grazie anche a trattamenti molto complessi eseguiti durante i primi anni di vita, sopravvivono a cardiopatie con sequele che evolvono verso l’insufficienza cardiaca terminale. In questi casi il trattamento tradizionale è il trapianto cardiaco ma, purtroppo, esiste una forbice negativa tra il numero di trapianti annui, che nel nostro Paese è costante e non aumenta fermandosi sotto i 400, e il numero dei potenziali candidati al trapianto, che sono molti di più. Di conseguenza, il tempo in lista d’attesa aumenta e si crea il problema di come far sopravvivere questi pazienti nelle migliori condizioni fino al trapianto. Se da un lato si può guadagnare tempo creando percorsi per la terapia farmacologica, portando avanti la ricerca in farmaci innovativi, dall’altro è necessario implementare lo sviluppo del cuore artificiale, terapia che spesso fa da ponte al trapianto cardiaco. Si tratta dell’impianto di una pompa, che nel paziente adulto è intracorporea, inserita all’interno del torace per aiutare il cuore disfunzionante, mentre nei bambini è esterna. Purtroppo per i più piccoli non abbiamo ancora dispositivi intratoracici. La differenza è che il dispositivo interno permette di mandare il paziente a casa, l’altro no, quindi il bambino deve restare in ospedale ad aspettare il trapianto e a volte si tratta di periodi anche più lunghi di un anno. E’ qui che deve venire in aiuto l’innovazione e la tecnologia.
In quale modo? Quali tipologie di device sono necessari per migliorare le condizioni di vita del bambino, ma anche dell’adulto, affetti da importanti difetti cardiaci?
Per quanto riguarda gli adulti, come detto, il cuore artificiale intratoracico già abbatte numerose difficoltà. Resta però il problema dell’alimentazione di questi dispositivi toracici: il cavo esce dal corpo ed è collegato con batterie esterne che devono essere ricaricate. E’ la parte più semplice del sistema ma anche quella con più complicanze, perché si associa ad un rischio di infezioni della linea di alimentazione. Cosa si può fare per ovviare? Si stanno sperimentando sistemi di trasmissione transcutanea di energia, batterie interne ricaricabili attraverso la pelle. Questo sarà un grosso passo, non so quanto dovremo aspettare, ma mi auguro che nei prossimi 3-4 anni possa essere nel nostro armamentario. Per i lattanti e i bambini piccoli, invece, la situazione è più complessa, servono sistemi di assistenza miniaturizzati in grado di essere inseriti nel torace. Non è semplice perché non basta miniaturizzare le pompe, al momento paghiamo un ritardo ingegneristico, ma proprio questa sarà una delle linee importanti di ricerca e sviluppo nei prossimi anni.
Ci sono altri fronti su cui la tecnologia può essere d’aiuto?
Certamente, ad esempio per la terapia cellulare e la terapia genica per sanare le ferite del cuore, in particolare per chi ha subito un infarto del miocardio o per bambini sopravvissuti a diversi interventi. Si tratta di linee già sviluppate per altri tipi di condizioni mentre nella cardiologia siamo in ritardo e dobbiamo correre. Inoltre la tecnologia può venire in nostro soccorso per pianificare meglio interventi molto complessi, specialmente se realizzati con tecniche percutanee o mininvasive, in cui l’accesso non avviene più attraverso gli occhi del chirurgo ma attraverso ricostruzioni 3D e oleografiche. La tecnologia diventa così parte importante anche della formazione e del trading dei giovani colleghi.
Fondamentale per l’innovazione resta dunque la ricerca: vuole lanciare un appello in questa direzione?
Un appello lo vorrei lanciare, non tanto alle istituzioni, ma ai ragazzi che si affacciano al mondo del lavoro: a loro vorrei dire che fare il cardiochirurgo non è solo tagliare e cucire ma anche innovare. La cardiochirurgia è nata con uno sforzo di innovazione fortissimo negli anni ’50. E’ compito nostro proporre, le istituzioni poi ci devono dare una mano, ma le idee devono venire dai professionisti, soprattutto i giovani che dovrebbero avere più capacità di guardare al futuro, cercando di anticipare le sfide e di immaginare soluzioni. Il progresso passa sempre per i giovani.
I fondi a disposizione sono sufficienti?
Ne servirebbero sempre di più ma non possiamo dire che i fondi non ci sono: i fondi ci sono e ci sono anche quelli europei. Ecco, quello in cui potrebbero aiutarci le istituzioni, più che a stanziare semplicemente risorse, è strutturare i centri per la ricerca, semplificando anche i passaggi burocratici. L’Ospedale Bambino Gesù ha uffici dedicati alla strutturazione dei programmi di ricerca ma non per tutti è cosi