E’ un indubbio successo italiano la nomina di Raffaele Fitto a vice presidente esecutivo della Commissione europea e a commissario europeo per la politica regionale e di coesione, lo sviluppo regionale, le città e le riforme. Una vittoria dell’intero Paese, ma in particolare del governo guidato da Giorgia Meloni
di Pietro Romano
Un successo che va ascritto, tra l’altro, alla stabilità del nostro esecutivo, rispetto alle instabilità francesi e tedesche. E che, se probabilmente ha spostato a destra l’asse della Commissione di Bruxelles, quasi con sicurezza permetterà all’Italia di esercitare una influenza sul processo decisionale europeo maggiore di quella che ricordiamo da molto tempo a questa parte. Se ne facciano una ragione diversi commentatori nostrani delle vicende europee.
Esiste però un’altra faccia della medaglia: la persistente debolezza ereditata dal passato nella presenza italiana nei gabinetti dei commissari, dove – quale che siano nazionalità e colore politico dei “numeri uno” – le figure chiave svolgono un ruolo fondamentale per proteggere gli interessi del proprio sistema Paese e casomai rafforzarlo. I numeri sono implacabili. Su 53 posizioni chiave nei gabinetti del nuovo esecutivo, l’Italia conta solo tre presenze contro nove della Germania e otto della Francia.
La presenza italiana è a macchia di leopardo
Fuori dai vertici dei gabinetti, invece, nelle varie direzioni generali gli italiani sono meglio posizionati di tedeschi e francesi. Rappresentano il 14,6% del personale totale contro il 14,4% dei belgi, il 10,7% dei francesi, l’8,7% degli spagnoli e il 6,7% dei tedeschi. Purtroppo la presenza italiana è a macchia di leopardo. Il nostro Paese non è rappresentato ai vertici dello staff di due commissari di peso rilevante: non ci sono nostri rappresentanti apicali sia alla Transizione sia alla Strategia industriale e mercato interno.
Questa situazione è frutto di un combinato disposto di frammentazione politica (portata a Bruxelles di peso da Roma) e di incapacità di fare squadra, tipicamente italiana, ereditata dall’epoca dei Comuni. Manca una strategia nazionale perlomeno dai tempi in cui l’attuale ministro degli Esteri, Antonio Tajani, era commissario all’Industria. Fu un momento particolarmente fortunato per l’Italia. Con Tajani facevano squadra Mercedes Bresso (a capo del Comitato delle Regioni, Gianni Pittella (vice presidente vicario del Parlamento europeo) e Mario Mauro (capogruppo al Parlamento europeo). Ma è un momento lontano nel tempo, come ci accorgiamo oggi. Anche se alcuni risultati di questa alleanza sopravvivono. Fu con Tajani commissario che l’Unione europea cominciò concretamente a parlare di politica industriale comune. Mentre, piaccia o no, i nostri rappresentanti nella Commissione europea dopo Tajani non hanno lasciato segni tangibili, perlomeno sul fronte della difesa degli interessi nazionali.
“Superare le divisioni per costruire una rete”
Il passato è passato. Spetta all’attuale governo, e agli italiani di buona volontà, a qualsiasi schieramento appartengano, la capacità di creare una regìa nazionale delle politiche, del personale e non solo, a Bruxelles. “E’ necessario superare le divisioni per costruire un network coeso”, ha scritto giustamente il puntuale analista geo- economico e geo-politico Pietro Paganini. Un network che possa “anticipare le mosse europee condividendo informazioni strategiche per influenzare le decisioni nell’interesse del Paese senza subire la burocrazia comunitaria ma piuttosto governandola”. Non è facile. Ma vale la pena di provarci. Sarebbe un esempio di autentica, e proficua, discontinuità.