
di Pietro Romano
Finalmente le Borse hanno ‘scoperto’ i titoli legati all’industria degli armamenti. Come i mezzi di comunicazione avevano già fatto per quanto riguarda notizie e analisi relativi allo stesso settore. Speriamo, però, non con lo stesso pressappochismo.
Il pericolo è che dei titoli della difesa se ne stiano accorgendo in troppi, fin troppo, tutto in un colpo. E che l’interesse sia alquanto superficiale. E l’euforia pericolosa, parecchio pericolosa, per gli investitori fai-da-te e anche per quanti investono i soldi altrui e dovrebbero andare più cauti.
L’industria della difesa è una industria molto delicata per le sue ricadute non solo economiche ma anche politiche e sociali. Nel valutarla, a esempio, bisognerebbe calcolare anche il valore della sua dualità, vale a dire delle utilizzazioni a uso civile di scoperte militari che possono incidere sulla redditività futura. Inoltre, non è che la decisione di investire più fondi nelle attività militari si trasforma nel breve periodo in acquisizioni immediate da parte di tutte le aziende del settore. Le variabili sono tante.
L’esempio l’abbiamo sotto gli occhi. Da quando la Russia ha invaso l’Ucraina, l’Europa ha accresciuto notevolmente le sue spese in armamenti. Ma solo una parte ridotta di questi investimenti ha alimentato le casse delle aziende del Vecchio Continente. Gli Usa in particolare ma anche la Corea del Sud e la Turchia hanno realizzato affari d’oro. I Paesi (e le industrie) europei non avevano magazzini forniti, le capacità produttive non erano in grado di tenere dietro agli ordini, le forze armate dell’Unione avevano dotazioni limitate e spesso obsolete. Sono stati risolti questi problemi? Non è detto. Di sicuro tali aspetti andrebbero approfonditi.
Comunque, i numeri per ora parlano chiaro. Prendiamo l’indagine annuale condotta dal Sipri, tra i più importanti osservatori mondiali sul comparto. La più aggiornata registra l’andamento delle vendite dell’industria mondiale degli armamenti nel 2023 nei cento gruppi globali più importanti. Ebbene, nonostante il forte incremento delle spese militari nella Ue, i 23 gruppi europei presenti nella graduatoria hanno fatto segnare una crescita appena dello 0,2%. Venendo all’Italia, il campione dell’industria (non solo della difesa) del nostro Paese, Leonardo, ha visto ridurre il suo fatturato militare dell’11%. Ed è stata del 6% la diminuzione riscontrata dall’altro gruppo italiano presente nella “top cento” del Sipri, Fincantieri.
Questi sono i numeri. Tra poco ne arriveranno altri, relativi ai dati del 2024. A euforia già consumata? Speriamo di no. Ma una meditazione più ponderata non sarebbe superflua.