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I dazi ci sono sempre stati e continueranno ad esserci. Il presidente americano li ha già usati nel suo primo mandato, il successore li ha confermati e oggi Trump, al suo secondo mandato, li usa come strumento di apertura a tavoli negoziali
di Luca Lippi
In Europa chi dovrebbe preoccuparsene sarebbero Italia e Germania che da sole hanno un deficit commerciale con l’America rispettivamente di 40 e 85 miliardi. Si rischia un accordo bilaterale? Se l’Europa si decidesse a rinunciare al “muro contro muro” per nascondere i fallimenti di un ecologismo ideologico che sta distruggendo l’industria, sicuramente no.
I dazi non sono una cosa nuova. Il primo episodio noto, in un’Italia di fine ottocento che stava costruendo la sua posizione in Europa – all’epoca era l’Europa delle nazioni – e nel mondo, ebbe un effetto pesantissimo. L’Europa dell’epoca, o forse è meglio specificare la cultura europea dominante, esaltava lo stato in quanto nazione, portatore di valori propri ed esclusivi, e per effetto di questa caratterizzazione dei valori propri della nazione, i paesi, stati, nazioni si contrapponevano ad altri omologhi e poi sappiamo come è andata a finire.
La Francia e i dazi ai prodotti agricoli italiani
In quella Europa, la neonata Italia doveva rispondere alle spinte commerciali del nostro partner dell’epoca che era la Francia. La Francia ha sempre avuto ambizioni, anche europeiste, ma in chiave egemonica. Col tempo, abbandonò i tavoli diplomatici quando decise che alcuni suoi interessi nazionali – spesso legati al mondo delle produzioni agricole – sembravano essere messi in pericolo dagli scambi commerciali.
La Francia mise dazi ai prodotti agricoli italiani nel 1872, dopo qualche anno l’Italia reagì – era in costruzione non dimentichiamolo – con l’opposizione di altri dazi (ai dazi si risponde sempre con altri dazi). I dazi – di reazione – voluti dal governo De Pretis furono del 1880 ca. e furono esclusivamente dovuti alle necessità di un’industria nazionale estremamente debole e alla necessità di tutelare la produzione interna dalla concorrenza estera, il nazionalismo non era al centro del dibattito. L’industria stava nascendo con i primi investimenti voluti dallo stato e dalla piccola borghesia del Nord e dai grandi latifondisti del Mezzogiorno.
L’avvicinamento alla Germania
Appena usciti dal periodo “risorgimentale” l’Italia si avvicinò alla Germania: i grandi gruppi industriali e bancari tedeschi investirono decine di milioni di lire del tempo nel Nord Italia. Questa alleanza sarebbe poi stata suggellata con Triplice Alleanza del 1882 sul piano militare, cosa a cui l’Italia non aveva mai creduto seriamente.
Parte di quegli investimenti tedeschi portarono poi alla base industriale che portò l’Italia all’era giolittiana, il piccolo miracolo economico, e alla “vittoria” della prima guerra mondiale. Il risultato delle gabelle doganali procurò il crollo dell’export italiano da Nord a Sud. Il danno più grande è sotto gli occhi di tutti, un aumento devastante delle “distanze” tra Settentrione e Meridione. L’enorme sofferenza dell’Italia in costruzione superò solo di qualche grado la sofferenza che dovette subire anche la Francia. L’export francese nei confronti dell’Italia si ridusse di circa un terzo, quello italiano nei confronti della Francia si ridusse a un terzo, con enorme patimento per le due economie.
I dazi durante la Grande Depressione
Altro episodio di dazi, stavolta riguardante gli Stati Uniti, è lo Smoot-Hawley Tariff Act. Siamo negli anni della grande depressione americana. Il senatore repubblicano Smoot fortemente convinto degli effetti benefici dei dazi all’economia americana, fece passare la misura – molto violenta – verso tutto l’import. Probabilmente uno dei motivi per cui fu decisa questa politica economica, peraltro avversata dagli economisti dell’epoca, originava dalla necessità di reagire alla crisi del 1929. Si pensava di reagire proteggendo attraverso i dazi le imprese e i lavoratori statunitensi.
Il risultato fu devastante! La crisi del 29 origina da una bolla immobiliare che contagia tutta la finanza fino a deteriorare anche gli equilibri di Borsa. Si ricorda il new deal ma non si ricorda cosa fu fatto di sbagliato durante gli anni immediatamente successivi. I dazi rallentarono la ripresa aggravando lo stato di crisi. Crollò il PIL mondiale (a differenza di oggi gli Stati Uniti esportavano più di quanto importavano), l’export degli Stati Uniti crollò, naturalmente, crollò anche l’import ma anche l’economia mondiale.
Questi sono solo due esempi che si possono fare di come il commercio mondiale, quando è sostenuto o protetto attraverso i dazi, può avere un impatto pesante su tutta l’economia. L’economia, oggi, è tutta interconnessa, assai più di quanto non lo fosse negli anni trenta. Gli eventuali danni di una “potente” politica di dazi porterebbero a manifestazioni nell’immediato ma non nel medio/lungo termine, anzi, stimolerebbe l’innovazione.
COSA STA FACENDO TRUMP
Per Trump, i dazi sono più che altro, un vessillo. Ha atteggiamenti minacciosi, ma è sempre emersa la sua caratteristica di “negoziatore”. Il fatto che i dazi verso il Messico siano stati sospesi per un mese, conferma l’utilizzo della misura come arma di ricatto. In sostanza avverte che mettersi di traverso ai suoi programmi politici comporta la “bastonata” dei dazi. Comunque meglio di altri tipi di bastonate cui ci avevano abituato gli USA-.
Tanto è vero che la presidente messicana ha capito – o le è stato detto – che il grande problema di Trump col Messico, non è tanto l’import ma l’immigrazione. Di fatto, l’accordo si è già trovato con l’invio della guardia nazionale messicana ai confini. Per arginare l’onda migratoria che metterebbe a rischio – secondo Trump – la tenuta sociale di un paese gigantesco come gli USA. Brandire l’arma dei dazi ha generato un primo risultato!
I dazi nei confronti del Canada
Poi ci sono i dazi nei confronti del Canada. La vulgata populista vorrebbe far passare il messaggio che Trump brandisca i dazi in cambio dell’annessione del Canada. Il Canada ha minacciato di riequilibrare la pressione della minacciata tassa – il Canada esporta materie prime e prodotti meccanici verso gli Stati Uniti – ma la guerra dei dazi paventata dal combattivo primo ministro canadese Justin Trudeau, costerebbe una cifra tra i 120 e 150 miliardi di Dollari.
È una guerra che non conviene a nessuno dei due. Tanto è vero che su X, il primo ministro canadese ha scritto (4 febbraio fonte ANSA): “Il Canada sta prendendo nuovi impegni. Nomineremo un responsabile della questione del fentanyl, aggiungeremo i cartelli messicani alla lista delle entità terroristiche. Lanceremo, con gli Stati Uniti, una forza d’attacco congiunta contro la criminalità organizzata, il traffico di fentanyl e il riciclaggio di denaro sporco“. Anche in questo caso i dazi si sono palesati come strumento di trattativa, si profila un accordo trilaterale. Trump è un cane che abbaia moltissimo ma morde poco.
COSA FARA’ TRUMP CON L’EUROPA
L’atteggiamento dell’Europa sembra quello di non piegarsi. Il primo obiettivo di Trump attraverso i dazi – al netto delle singole situazioni – è quello raffigurato nella figura che segue
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Questo è il dato aggregato dell’import di gas naturale liquefatto. Gli Stati Uniti fanno già la parte del “padrone”, quello che vuole fare Trump è obbligare gli stati membri dell’Unione Europea ad aumentare l’importazione dall’America fino al 50 per cento. Il motivo è visibile nella figura sopra. Una parte considerevole di importazione della materia prima è ancora appannaggio della Russia.
Trump dirà agli stati europei – vedremo se sarà così molto presto – che i dazi non ci saranno a condizione che L’UE compri dagli Stati Uniti più di quanto non stiano già facendo ora. È soprattutto anche un invito alla Ue di aumentare il contributo alle spese militari se non vuole trovarsi scoperta di protezione. Dunque vuole per sé la parte di import dalla Russia facendo leva sull’incapacità della UE di difendersi dal presunto espansionismo da EST. Ci riuscirà? Con una percentuale altissima di probabilità la risposta è sì.
QUANTO È “SBILANCIATA” LA BILANCIA EUROPEA NEI CONFRONTI DEGLI STATI UNITI
Siamo in surplus di circa cento settantasette miliardi, sarebbe anche di più questo sbilanciamento se non ci fosse l’Irlanda che è sede europea di molte grandi aziende americane nel settore della tecnologia e dei servizi. Il saldo negativo, per Trump, è sinonimo di paese debole che si fa rapinare. I suoi consiglieri faranno in modo di chiarirgli che grandi esportatori come Cina e Germania oggi sono in difficoltà, malgrado le bilance commerciali positive. Al confronto l’America attraversa una fase brillante. La sua economia cresce bene, l’inflazione è tenuta ormai sotto controllo. Il deficit commerciale però è a livelli record: 310,9 miliardi di dollari, pari al 4,2 per cento del Pil. È piuttosto normale che nella “guerra” dei dazi ci sia l’esigenza di creare alternative e comprare meno da un paese “nemico”, inevitabilmente, comporta comprare di più da altri paesi “meno nemici”.
La UE allo stato dell’arte è bullizzabile un po’ da tutti
Trump pratica una sorta di bullismo, invero del tutto simile a quello praticato dall’amministrazione precedente, semplicemente manifesta una visione distorta dei processi economici. Oltretutto, è legato ancora al vecchio concetto che l’esibizione dei muscoli sia necessaria. Ogni ostacolo al commercio mondiale produce effetti negativi, non soltanto al commercio mondiale stesso, ma anche alle parti in causa che sono i lavoratori, le imprese sia americane sia europee.
In passato, ai dazi si è cercato di porre rimedio con accordi bilaterali. Questo è il pericolo che corre l’Europa perché la UE non ha alcun impianto di unione. Ogni paese ragiona a tutela dei propri interessi. Non si può escludere un parapiglia interno che sarebbe la manifestazione plastica di un’unione vera e consolidata con la propria moneta – gli USA – verso un’unione “disunita” farraginosa nelle interlocuzioni, con enormi conflitti ideologici all’interno e una politica mai stata comune se non per il calibro delle vongole o amenità del genere. Potenzialmente la UE allo stato dell’arte è bullizzabile un po’ da tutti per colpa dello sgretolamento dell’industria a “vantaggio” di un ecologismo estremo.