Può una catena di eventi spazzare via un’intera generazione di investitori? Può accadere che in sole poche settimane possa “bruciare” l’intera ricchezza accumulata in un decennio? La risposta è sì, è accaduto
di Luca Lippi
Potrebbe accadere nuovamente? Non esiste la risposta a quest’ultima domanda, nessuno può prevedere il futuro, ma è bene ripercorrere quello che accadde nel 1929 alla ricerca di “similitudini”, parametrando il caso ai ritmi e alle tecnologie moderne e cercando di investigare su eventuali segnali “già visti” da non sottovalutare. È il baratro della “grande depressione del 1929”, è la lezione che tutti avrebbero dovuto imparare ma nessuno conserva nella memoria: se non sarai tu a occuparti dell’Economia, sarà l’Economia a occuparsi di te.
Tra il 1920 e il 1929 la ricchezza totale degli Stati Uniti era più che raddoppiata. Il PIL USA aumentò del 40 per cento. Dal 1900 e per tutti gli anni 20 il tasso di disoccupazione non superò il 4 per cento. Il PIL pro – capite aumentò da 6460 a 8016 Dollari, floridezza non uniforme come accade sempre. L’indice azionario che rappresenta l’andamento dei 30 titoli principali quotati nel mercato statunitense – il Dow Jones Industrial Average – passò da un valore di 63,9 punti nell’agosto del 1921 a un massimo di oltre 381 punti.
24 OTTOBRE 1929
Siamo in un periodo storico – per quanto riguarda l’economia – nel quale progresso e sviluppo procedono di pari passo, portando benessere ad ogni livello sociale. La guerra è solo un lontano ricordo, il livello alto di occupazione sostiene il potere di acquisto. Innovazione tecnologica e scoperte scientifiche creano fermento nel mercato dei capitali generando uno scambio di denaro da una all’altra sponda dell’Atlantico senza soluzione di continuità.
COSA È ANDATO STORTO
Le economie di mezzo mondo sono state trascinate nel baratro di schianto. È la più grande crisi economica nella storia per durata, entità e numero di Paesi coinvolti. Ancora a distanza di quasi un secolo, si cercano le cause della spirale distruttiva dell’economia mondiale formatasi un “giovedì nero” con la velocità e l’impetuosità di un uragano.
In realtà, le condizioni macro che hanno innescato l’eccezionale distruzione di ricchezza sono ben note. Quello che non ha trovato ancora risposta oggi è il reale peso delle componenti in gioco oggetto di studio di storici, sociologi ed economisti. La “complessità” del fenomeno – non tanto il fenomeno in sé – è stata tale da rendere il dibattito, ancora vivo dopo un secolo, affatto sterile e fine a sé stesso.
Il giovedì nero, superficialmente, è ormai declassato a fenomeno cinematografico, riferimento di qualche testo scolastico, le masse annoiate da divano pensano che della “grande depressione” si sia già detto tutto. Purtroppo non è così! Bisogna ancora fermare l’attenzione a lungo su tutte le dinamiche, il rapporto esistente all’epoca tra capitale e lavoro, credito e imprese, produzione e consumi. La fotografia che giunge oggi di quelle dinamiche, confrontata con la realtà dei nostri giorni, trasforma il secolo trascorso in OGGI!
TEATRO FINANZIARIO DEL 1929
Lo sfondo della scena che rappresenta il giovedì nero è un sistema finanziario già molto complesso fortemente interconnesso e strutturato. Non abbastanza da poterlo confrontare col sistema moderno, ma sufficientemente articolato da richiedere un’attenzione maggiore al movimento degli ingranaggi di allora.
Un ingranaggio molto importante che subì il primo “inceppamento” fu il miglioramento della produzione agricola europea. Questa innescò una crisi da sovraproduzione negli Stati Uniti tale da far cadere la prima scheda del Domino che coinvolgerà le Borse.
Il miglioramento della resa dei raccolti europei mette in ginocchio gli USA? Impensabile per gli economisti dell’epoca! Come lo è stato per gli economisti moderni la crisi innescata dalla pandemia del 2019. Gli anni 20 saranno anche il battesimo dell’iconica immagine del “cigno nero”.
Gli Stati Uniti del dopoguerra – la prima mondiale – erano l’emblema del Paese irraggiungibile, un treno così sfarzoso, ricco, potente ma troppo veloce da prendere al volo. Uscirono dalla guerra forse come i veri e unici vincitori. I vecchi imperi europei ne uscirono devastati. Nel decennio successivo al conflitto, mentre in Europa ancora si raccoglievano le macerie, i Sati Uniti vivevano un eccezionale periodo di prosperità. Tuttavia, i progressi finanziari che abbiamo anticipato in apertura di questo articolo, manifestavano già complessi problemi strutturali. Principali produttori di ferro e carbone, gli Stati Uniti diventano la più importante industria meccanica. Estraggono i due terzi del petrolio mondiale, vantano la maggiore industria automobilistica con una motorizzazione di massa diffusissima. Gli USA sono, dunque, un grandissimo attrattore finanziario e una fucina di nuove idee in campo artistico, scientifico e culturale.
Nell’ottica dei mercati come li conosciamo oggi, la domanda ovvia che potrebbe sorgere nelle menti degli appassionati di economia più giovani dovrebbe essere: ma se i mercati europei erano così malmessi, come poteva prosperare l’economia USA?
IL MOVIMENTO DEL DENARO TRA LE DUE SPONDE DELL’ATLANTICO
Da una parte – gli USA – c’era il fermento e il benessere, dall’altra, macerie ancora fumanti, come si poteva muovere il denaro? Andiamo con ordine: la Germania è la grande sconfitta e deve ripagare i danni di guerra a Francia e Inghilterra che sono le nazioni vincitrici; Francia e Inghilterra erano comunque rase al suolo e fortemente indebitate con gli Stati Uniti che aveva prestato loro denaro per affrontare la Germania. La situazione reale era che nessuno poteva dare soldi a nessuno.
Verso la metà degli anni 20 entra in campo il “piano Dawes”: gli Usa concedevano denaro alla Germania sotto la forma di imponenti prestiti obbligazionari, collocati sul mercato statunitense attraverso la banca JP Morgan; la Germania utilizza questi fondi per risanare la sua economia e contrastare l’iper inflazione, ripagando anche i danni di guerra a Francia e Inghilterra. Francia e Inghilterra possono, con i soldi della Germania, a loro volta risanare le economie interne e ripagare i loro debiti di guerra verso gli Stati Uniti, oltre acquistare merci americane in sovrapproduzione.
Il piano Dawes genera in un solo colpo: il rientro dei capitali con gli interessi; la rigenerazione di mercati in grado di assorbire l’export; l’influenza politica sulle economie soccorse. Dall’Europa arriva un fiume di denaro, forse troppo! In dieci anni l’America mette nelle migliori condizioni possibili la sua economia, non ha disoccupazione, è geopoliticamente dominante sui “suoi” mercati di riferimento, tanto e in troppo poco tempo.
ANALISI
Dobbiamo posizionarci su due livelli per ottimizzare l’osservazione del fenomeno degli “anni ruggenti” in Usa. Gli Stati Uniti negli anni 20 sono governati dal partito repubblicano che elegge tre Presidenti di seguito. La politica del partito era densamente volta allo sviluppo del mercato interno, questo è compatibile con rigidissime politiche protezionistiche penalizzando le merci di provenienza estera a vantaggio delle merci domestiche.
Questo ha dato l’impulso all’imprenditoria americana di sviluppare e accrescere la produzione impegnando capitale di rischio con molta disinvoltura. Il settore agricolo e automobilistico – ma anche quello immobiliare – sono i settori cresciuti maggiormente attirando anche moltissimi investimenti. I tre settori citati saranno gli attori principali della crisi.
Se è vero, come è vero, che il protezionismo sviluppa – e anche all’epoca aveva fatto sviluppare – il mercato interno, è altrettanto vero che crea uno “scollamento” tra la Finanza e la realtà economica sottostante. Tra gli investitori si era consolidato un ottimismo euforico del tutto irrazionale. La fiducia su una crescita economica inarrestabile non è mai compatibile con l’analisi fondamentale – all’epoca molto trascurata – che tiene conto dei cicli. Le banche erano letteralmente piene di denaro, sia per il piano Dawes sia per lo stato di salute dell’economia interna. Attenzione a questo passaggio: la buona salute dell’economia deve essere una situazione oggettiva, ma gli speculatori non sempre ragionano, spesso la speculazione intende uno stato di buona salute dell’economia “pretesa”.
Gli investitori si indebitavano con le banche, e queste ultime concedevano denaro con troppa disinvoltura agli speculatori. Mentre il compito delle banche è quello di concedere credito per sostenere l’economia reale, non per “giocare d’azzardo”. Tutto questo ricorda quello che accadde nel 2007 – crisi dei mutui subprime – quando le banche erogavano mutui con estrema disinvoltura senza dedicare la dovuta attenzione alla solvibilità. La storia è materia priva di allievi!
I raccolti nella vecchia Europa in ricostruzione hanno cominciato a migliorare – siamo sempre negli anni 20 – e il settore agricolo statunitense, molto sviluppato e tutelato dalle politiche protezionistiche dei governi a trazione repubblicana, cominciano a soffrire il calo dell’export, soprattutto soffrono perché l’industria agricola a stelle e strisce si è indebitata per ingrandirsi e già soffrono di sovraproduzione.
I salari diminuiscono, aumentano i licenziamenti e molta merce deperibile rimasta invenduta brucia letteralmente insieme alla capacità degli imprenditori di onorare i debiti contratti con le banche. È l’inizio della “grande depressione”, la catastrofe peggiore dell’economia moderna.
L’AGRICOLTURA AFFOSSA LE BORSE
La crisi del comparto agricolo si amplifica drammaticamente nei saloni delle Borse. Montagne di denaro restano sepolte dalle macerie di aziende fallite o fortemente ridimensionate. Il panico coinvolge anche investitori di medie e piccole dimensioni. La chiusura di posizioni aperte – pochissime in scarso guadagno, poche a recupero del capitale investito, moltissime in forte perdita – mette in crisi il sistema bancario. Molti istituti di credito entrano nel vortice di una grandissima crisi di liquidità, non hanno abbastanza “soldi veri” per chiudere e liquidare le operazioni di vendita. La crisi di liquidità non risparmierà perfino le banche di grandi dimensioni, lo spettro della bancarotta prende consistenza.
IL GIOVEDI’ NERO
È giovedì 24 ottobre del 1929, il “Giovedì nero”. Le vendite, il panico, la paura di ritrovarsi poveri dal giorno alla sera, fa tremare i polsi anche alla borghesia dell’epoca che vende o smette di comperare anche beni durevoli, come le automobili. Comincia l’effetto domino, i capitali bruciati in Borsa fermano lo sviluppo e la produzione delle imprese. Molte commesse vengono annullate, i salari dei dipendenti tagliati aggravando la crisi dei consumi.
I principali settori produttivi americani sono seriamente compromessi, come in un incubo cominciano a vedersi in strada persone, ancora ben vestite, in coda per del cibo, ma non si chiude con questa immagine. Il fondo da toccare è ancora lontano!
IL PIANO DAWES IMPLODE
Il piano adottato dagli Stati Uniti per creare – nell’immediato dopoguerra – il circolo virtuoso di salvataggi e rientro dei crediti di guerra, era finanziato attraverso la vendita di obbligazioni sul mercato americano, dove nessuno ha più soldi da investire e chi ne ha è inorridito solo al pensiero, che siano banche o risparmiatori non c’è alcuna differenza, nessuno investe più un centesimo, figurarsi in titoli tedeschi! Però il prestito deve essere rimborsato con gli interessi!
In estrema sintesi, la crisi sorvola l’Atlantico come un fulmine e si abbatte sulla Germania. Il grande sconfitto della prima guerra mondiale all’improvviso si ritrova come il soldato che mette lo scarpone su una mina, senza più le gambe. Licenziamenti, crollo dei salari, crollo dei consumi e, soprattutto, l’insolvenza – debiti di guerra – nei confronti di Francia Inghilterra e Italia. Di conseguenza, anche Italia, Francia e Inghilterra si trovano in difficoltà nel ripagare i propri debiti nei confronti degli stati Uniti oltre che finanziarie la ripresa economica interna che subisce un improvviso arresto. Tutto questo ha preso il nome di “grande depressione”, una recessione devastante durata un decennio.
I NUMERI
Dicembre 1929: gli stati Uniti hanno il tasso di disoccupazione al 3,2 per cento; nel 1934, al culmine della crisi, è al 25 per cento. Nei primi tre anni di crisi il PIL Usa perde l’8,5 per cento il primo anno; il 6,4 per cento il secondo anno e nel terzo anno il 12,9 per cento.
Numeri meno importanti ma non trascurabili sono anche quelli della contagiata Europa, ma che, comunque, sofferente per la guerra, è più abituata al sacrificio e nell’arte di arrangiarsi, i benestanti che hanno subito maggiormente la crisi finanziaria non erano abbastanza per muovere statistiche apprezzabili. L’impatto sociale negli Stati Uniti è stato devastante, i giardini antistanti le poche case rimaste nella
disponibilità di pochi fortunati, trasformati in orti. Il tasso di suicidi, soprattutto nella fascia di età più matura, ha raggiunto cifre ineguagliate.
L’USCITA DALLA CRISI
I primi a rialzare il capo sono stati, come al solito, gli americani, la via di uscita fu rappresentata da un enorme piano di investimenti pubblici e di riforme – il new deal – voluto dal democratico Franklin Delano Roosevelt (1934). Il nuovo piano rimise in sesto l’economia statunitense in tempi “relativamente brevi”, giusto in tempo per programmare un nuovo piano di massicci investimenti per fare fronte alla seconda guerra mondiale. Nel 1939 le forze armate USA consistevano di 200 mila uomini, nel 1945, al netto dei caduti il numero di soldati effettivi era di 12 milioni di unità. In sostanza, solo per l’impiego militare gli USA hanno abbattuto il tasso di disoccupazione.
Il New Deal di Roosevelt consisteva nello sganciamento del valore del Dollaro Usa dall’Oro svalutandolo del 40 per cento per ridurre i debiti e facilitare le esportazioni. L’impennata di acquisti sul mercato americano da parte dei Paesi con una valuta più forte ha fatto ripartire la produzione negli Usa a ritmi molto sostenuti. Oltretutto i Paesi debitori degli Stati Uniti hanno beneficiato di uno sconto senza precedenti. La disoccupazione viene riassorbita a gran velocità, la più parte con l’impiego nelle forze armate, ma soprattutto con la promozione di un sistema di Welfare vantaggioso per le classi meno abbienti e l’introduzione di una tassazione progressiva che prelevava risorse maggiori da chi beneficiava di redditi più elevati. L’orario di lavoro nelle fabbriche si riduce; si introducono sistemi di controllo del sistema bancario, della Borsa e dei mercati finanziari in generale.
Il ripristino dell’economia americana restituisce ossigeno anche al resto del mondo. Col New Deal possiamo segnare la fine della grande crisi del 1929.
CONTENSTUALIZZIAMO I NUMERI
I numeri da soli non sono niente se non riusciamo a contestualizzarli nel mondo reale. In Economia i numeri sono numeri e basta, un disegno di cui esistono solo i contorni, piatto, senza sfumature di colore. È inutile fare previsioni o rincorrere una scia avanzando complesse analisi se poi basta un giovedì qualunque, durante il quale tutti si alzano contemporaneamente abbandonando il tavolo, per far crollare un intero sistema economico e finanziario. Di bolle speculative ce ne sono di ogni tipo in ogni epoca e anche oggi, da cui è possibile tutelarsi facendo riferimento al mondo reale. Non sono solo i ristoranti pieni e i voli sold out l’immagine di un’economia sana.
Nel 1929 gli Stati uniti avevano le banche che operavano senza adeguati strumenti di controllo interni ed esterni. L’errore viene commesso ancora oggi, la storia si ripete! Si sviluppano nuovi mercati, nuovi asset ma non, contestualmente, le regole. Il mercato delle criptovalute di cinque o sei anni fa – ma in parte ancora oggi – sono l’esempio lampante che il 1929 a molti non ha insegnato niente. Anche la crisi di
liquidità delle banche è un errore che si ripete, abbiamo visto il caso dei mutui Subprime del 2008. Il vizio delle banche di usare più soldi di quelli che si hanno in cassa – di fatto azzardando – dopo che le valute sono state sganciate dalle riserve auree, ha costretto il regolatore a ricorrere agli accordi di Basilea. Basilea 3 è l’accordo che si è reso necessario proprio a seguito della bolla dei mutui Subprime, possiamo escludere un quarto accordo?
Anche la crescita lenta dei salari rispetto all’offerta di beni sul mercato è una gravissima mancanza di “déjà vu” rispetto a quanto accaduto nel 29; se non vengono alzati i salari, ma con quale logica si spingono le aziende a produrre se non esiste un adeguato livello di assorbimento dell’offerta? Henry Ford già nel 1914 aveva avviato una politica di aumento dei salari tra i suoi dipendenti proprio per assicurarsi una quota di mercato per l’assorbimento della produzione di autovetture anche da parte degli operai stessi. Tuttavia, allora, come oggi, le aspettative del mercato finanziario rispetto ai consumi reali che la gente poteva sostenere erano lontanissime dalla realtà, questo portò a una grave crisi di sovraproduzione – esattamente come oggi (es. auto elettriche) -. In sostanza, le dinamiche che si incrociano sono sempre le stesse, e non bisogna mettere la testa sotto la sabbia perché certi incroci procurano danni capaci di spazzare vie intere generazioni di investitori. Se non sarai tu a occuparti dell’Economia, sarà l’Economia a occuparsi di te.