La vita delle madri in carcere tra resilienza e fragilità: un’analisi delle principali criticità sanitarie e psicologiche con Luciano Lucania maternità carceri
di Flavia Scicchitano
Nelle carceri italiane sono detenute circa 2700 donne. Molte sono madri, tra queste ci sono coloro che hanno scelto di tenere con sé i propri bambini nel rispetto dei limiti previsti dalla normativa e coloro che per età o per decisioni esterne vivono ristrette lontane dai figli. Condizioni diverse ma psicologicamente faticose benché supportate dal Servizio sanitario nazionale, che negli istituti penitenziari mostra punti di forza e criticità.
Luciano Lucanìa, direttore della Società italiana di medicina e sanità penitenziaria Simspe ets, già presidente, qual è la situazione delle donne e in particolare delle madri nelle carceri italiane?
Dalla mia personale ed ultratrentennale esperienza in un istituto penitenziario con sezione femminile mi sento di dire che la donna in questo contesto si manifesta più resiliente. Mi è sempre stato evidente come le donne “tollerino” il carcere meglio degli uomini. Nella mia esperienza anche in altri contesti detentivi posso affermare che gli ambienti in cui vivono le donne sono meno malmessi di quegli degli uomini. Vi è, pur con i suoi limiti, un senso di solidarietà che in area maschile si percepisce di meno. Quasi una forma di supporto reciproco. E’ chiaro che scontare una pena detentiva, anche in attesa di giudizio, in carcere induce una profonda sofferenza, causata non solo dalla perdita di libertà ma anche dal distacco dalla famiglia. E quando si tratta di una mamma, separata dai propri figli, possono scatenarsi conseguenze psicologiche in grado di amplificare eventuali problematiche anche psichiatriche già esistenti.
Esiste poi la possibilità di tenere i figli piccoli con sé, si tratta anche in questo caso di una scelta emotivamente molto complessa ma finora non rammento significative criticità, salvo la situazione stessa. Il numero di bambini nelle carceri d’altronde è irrisorio, nel Sud Italia si tratta spesso di situazioni legate alla criminalità organizzata o alla migrazione, episodi mai gestiti in modo drammatico. Detto questo noi non conosciamo le storie giudiziarie delle detenute e non riteniamo giusto conoscerle. In linea generale e teorica si pensa che non sia un bene far crescere dei bambini all’interno di un carcere, ma nei primi anni di vita i bambini hanno bisogno della mamma e se c’è la mamma il mondo del bambino è completo. Per il resto, tutto quello che serve per le cure e l’assistenza sanitaria è garantito.
Quali sono quindi le fragilità legate all’universo femminile nella popolazione carceraria?
Trascorrere le proprie giornate nel contesto di un istituto di detenzione in uno stato di privazione di libertà è patogeno in sé e questo vale per tutti, uomini e donne. Lo stesso vale per la diffusione più rapida di patologie trasmissibili come virus. Parlando delle donne, come anticipato, uno dei grandi problemi è quello legato alla maternità. Quando i figli sono fuori, affidati alla famiglia o ad altri per situazioni che decide il giudice, queste donne vivono la reclusione con grandissimo disagio. La fragilità è legata a questo: essere madri e non poter vedere i figli che crescono fuori e seguirli. Un’altra problematica è legata alle dipendenze, tante donne sono tossicodipendenti. Per tutte esiste però la possibilità di fare tante attività che aiutano dal punto di vista psicofisico, come il lavoro, lo studio, o progettualità varie.
Il carcere come garantisce la tutela alla salute della donna e dei bambini?
Parlando di salute in senso lato, primariamente vi è una questione logistica, per cui alle mamme con i figli, laddove presenti ed utilizzabili, sono offerti locali diversi e separati dalle altre detenute, per agevolare il rapporto esclusivo mamma-bambino. In questo caso la coppia vive all’interno di sezioni nido in cui viene garantito tutto ciò che serve per la cura dei bambini come per il gioco e la crescita.
Quanto agli aspetti più strettamente sanitari, l’assistenza è gestita secondo la normativa nazionale. L’organizzazione delle aziende sanitarie locali prevede nell’ambito delle attività erogate anche la tutela della salute in carcere. Nei diversi istituti penitenziari nazionali ci possono essere eccellenze o carenze, a seconda della dimensione e del territorio, ma il modello organizzativo per i pazienti ristretti è uguale.
Negli istituti di maggiori dimensioni è prevista la presenza medica 24 ore su 24, l’emergenza-urgenza viene trattata attraverso il 118 e per le visite specialistiche si fa riferimento agli ambulatori interni o agli ambulatori esterni delle Asl che garantiscono i servizi agli istituti penitenziari. Per le specifiche necessità delle donne in materia ginecologica l’assistenza sanitaria assicura l’esecuzione di pap test e laddove le attività dei dipartimenti di prevenzione si attivano, anche di screening per il seno, supporto psicologico e psichiatrico, con cure equivalenti a quelle disponibili all’esterno. E lo stesso vale per i bambini che si trovano in carcere con le madri: per loro viene esteso il diritto a un’assistenza sanitaria pediatrica adeguata.
Quali sono i punti di forza e le criticità della medicina penitenziaria in Italia?
Il vero punto di forza negli istituti penitenziari di maggiori dimensioni e complessità di detenuti è la presenza di medici e infermieri h24, paradossalmente in grado di garantire un’assistenza più continuativa e una gestione dei pazienti meno difficile all’interno delle mura carcerarie rispetto a fuori. E anche la disponibilità di farmaci non si rileva problematica.
Molte sono invece le criticità. La prima riguarda l’assenza di medici disposti a lavorare in carcere per conto del Servizio sanitario nazionale. L’errore di fondo è stato avere voluto considerare la medicina penitenziaria una forma di medicina territoriale mentre si tratta di un sistema organizzato e complesso. Il lavoro in carcere porta con sé diversi rischi, è sottopagato, non offre garanzie ed è tracciato e controllato in modo talmente minuzioso da generare grande difficoltà operativa. La sanità oggi definita “penitenziaria” deve essere considerata globalmente un’attività sanitaria del Ssn in ambito penale nelle sue varie espressioni ed articolazioni, non una sola e semplice attività intramuraria, quindi come tale riorganizzata, stabilendone anche le dotazioni minime.
Infine spesso mancano i dati delle carceri e quindi gli aiuti, ad esempio mancano nel recente rapporto sulla tossicodipendenza in Italia. Nel report diffuso recentemente i dati delle carceri non sono considerati, e parliamo di un terzo di detenuti con problemi di tossicodipendenza.
In sostanza il diritto alla salute di donne e bambini viene garantito?
Nei fatti la salute del detenuto è gestita dal Servizio sanitario nazionale. Uno dei problemi, comune a tutti i cittadini, è quello delle liste d’attesa in caso di esami strumentali da eseguire negli ospedali. Il detenuto, però, a differenza del cittadino libero, molto spesso non ha le stesse possibilità di aggirare le liste d’attesa rivolgendosi alla sanità privata per accertamenti a proprio carico. Un altro problema riguarda proprio le traduzioni nelle strutture sanitarie esterne. Il detenuto deve essere accompagnato da personale e mezzi della polizia penitenziaria e può succedere che per indisponibilità delle risorse la visita salti. Per questo l’auspicio è che le aziende sanitarie dotino il più possibile gli ambulatori delle carceri di strumentazioni di base. Ci deve essere un gabinetto odontoiatrico, apparecchiature di minima per la cardiologia, un ecografo multidisciplinare. In questo Rebibbia, a Roma, rappresenta un’eccellenza.
La telemedicina è una strada da perseguire?
La telemedicina è una nota dolente a causa della gestione del diario clinico: sarebbe fondamentale una cartella sanitaria digitale del detenuto che lo segua nei trasferimenti. In passato avevamo avviato un progetto in questo senso, per cui con lo spostamento del detenuto in altro carcere il fascicolo diventava automaticamente leggibile nel nuovo istituto. Il ministero aveva finanziato e avevamo fatto un prototipo ma poi il progetto si è arenato. Lo stesso è accaduto con la rete di telecardiologia. Come Regione Calabria avevamo dato a tutti gli istituti un palmare, un elettrocardiografo che trasmetteva l’elettrocardiogramma ad una Utic, assicurando lo screening immediato di un dolore toracico. Poi tutto si è fermato. La tecnologia va portata nelle carceri ma servono investimenti e una visione di sistema.