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COMUNICAZIONE, TRA PAROLE ED ETICA

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La grande sfida che giornalisti e comunicatori si trovano oggi, e si troveranno in futuro, ad affrontare è quella di far capire di più con trasparenza, rispetto e consapevolezza

di Stefano Lucchini

Nel mondo ci sono alcune guerre e, paradossalmente, dobbiamo augurarci che siano lente, cioè in stallo, visto che le diplomazie non riescono ancora a trovare la via della pace. Ciò sembra contrastare con la velocità del cambiamento che pervade grandi paesi come gli Stati Uniti e la Cina, che ad esempio stanno investendo centinaia di miliardi nell’intelligenza artificiale: ben 330 Washington e 100 Pechino.

Nella società occidentale contemporanea intanto la comunicazione ha sostituito la forza come nucleo centrale della società. Questo è molto evidente nella sfera pubblica della politica democratica, dove le grandi decisioni collettive sono rimesse al voto e quindi alla decisione consapevole di individui bene informati. Proprio il fatto che gli individui siano bene informati dipende dalla natura della comunicazione, e qui entra in gioco il nostro lavoro, anche con riferimento al suo impatto etico e civile. E al suo impatto sulle grandi scelte che alla fine nel villaggio globale riguardano tutti, vedi le elezioni americane di novembre.

L’invenzione della stampa ha generato, nel tempo, la rivoluzione protestante, la rivoluzione scientifica e la rivoluzione industriale. Come è evidente, un cambiamento nella sfera della comunicazione implica mutamenti sostanziali e radicali nella sfera pubblica.

La teoria dell’agire comunicativo

Pensiamo ad Habermas e alla teoria dell’agire comunicativo: il suo pensiero è una proposta significativa, specialmente in tempi difficili e complessi a livello internazionale come quelli che stiamo vivendo. Ma in questa sede voglio concentrarmi su due considerazioni, più vicine al nostro mestiere:

La comunicazione influenza sempre di più non solo la vita sociale e politica ma anche la gestione dell’impresa, come si vede dai grandi mutamenti subiti dalla teoria dell’impresa tramite la cosiddetta stakeholder analysis;

• Non si può parlare di comunicazione in generale senza fare riferimento alla condizione digitale entro cui conduciamo le nostre vite e dunque ogni riflessione sulla comunicazione deve necessariamente tenere conto dei profondi cambiamenti in atto in questo campo.

La teoria dell’impresa negli ultimi decenni ha subito una modifica sostanziale e di enorme portata, che riguarda l’impresa tutta nella sua concezione teorica e che ha conseguenze fondamentali nella comunicazione d’impresa. Se prima, nella scienza economica e nella teoria dell’impresa, l’impresa è concepita come una struttura gerarchica che trasferisce nella catena di comando la volontà degli azionisti (i cosiddetti shareholder) facendo valere i loro interessi. Nella visione propria della stakeholder analysis, pur conservando evidentemente un ruolo la volontà degli azionisti, contano anche altri soggetti: contano, per esempio, le opinioni del personale, della pubblica amministrazione, dell’ambiente che ci circonda, dei clienti, dei consumatori e così via. In questo modo la teoria dell’impresa ha reso negli ultimi decenni il modello centrale della teoria economica simile a quello della politica liberal-democratica.

La comunicazione come elemento centrale dell’impresa

Di conseguenza, la comunicazione è passata da essere concepita come una pura trasmissione e traduzione di ordini e comandi a essere un elemento centrale e deve collegare interessi e proposte differenti in un unico messaggio che abbia un riferimento esplicito ai modi di agire, ai comportamenti, alle dinamiche di tutti gli stakeholder. Stakeholder, alla lettera, sono infatti tutti quelli che hanno voce in capitolo nel buon andamento dell’impresa, e come è naturale non è detto che i loro interessi e le loro volontà siano tra di loro omogenee.

Proprio per questo la comunicazione è centrale nella gestione dell’impresa. Non è un caso che in tutto il mondo imprenditoriale avanzato, dopo il Ceo, la persona mediamente più rappresentativa dell’impresa sia chi ha la responsabilità della comunicazione e delle relazioni esterne. E alla comunicazione è affidato, ovviamente, non solo il coordinamento delle diverse voci in capitolo di cui abbiamo detto, ma appunto anche l’immagine esterna dell’impresa, quella che i consumatori percepiscono frequentando i mercati. Per cui, in ultima analisi, da una corretta ed efficiente comunicazione dipende in maniera non banale il successo dell’impresa.

Nelle società avanzate infatti la comunicazione è uno strumento indispensabile di riuscita sui mercati e solo una valida comunicazione d’impresa può rendere l’azione dell’impresa efficace. Può sembrare lapalissiano, ma quando ci si trova davanti a problemi complessi in uno scenario in rapido mutamento (che per il nostro lavoro è il quotidiano) occorre tenere bene a mente questa apparente evidenza. La storia della comunicazione d’impresa è costellata di errori che a posteriori possono apparire evitabili o addirittura grossolani proprio perché chi si è trovato a dover prendere una determinata decisione in un certo tempo (che solitamente è sempre troppo breve), non ha tenuto a mente alcuni concetti di base e gli errori di comunicazione oggi possono produrre ingenti danni, esponenzialmente superiori a quanto accadeva anche solo vent’anni fa.

Reputazione, performance e successo

Nelle società come le nostre la reputazione è un elemento essenziale della riuscita, del successo, della performance efficiente. Senza comunicazione d’impresa che funziona non ci può essere né consenso all’interno dell’impresa né difesa della reputazione all’esterno. Il proliferare dei bilanci di sostenibilità negli ultimi anni ha reso ancora più evidente questo meccanismo. E la tendenza forte che io voglio sottolineare qui è duplice: innanzitutto, la sostenibilità deve essere legata a comportamenti concreti dell’impresa, e non essere solo uno slogan di marketing (che lo si voglia chiamare greenwashing o ipocrisia, poco cambia); in secondo luogo, nel panorama in rapido sviluppo della rendicontazione non finanziaria dell’impresa, e quindi all’importanza crescente dei criteri ESG, in Intesa Sanpaolo a esempio ci stiamo facendo l’idea che vada aggiunta la H di Human e di Health, perché vediamo che è l’attenzione alla persona (dai clienti ai dipendenti e ai fornitori) che fa davvero la differenza tra un’impresa e un’altra, e questo è un filo rosso che vogliamo valorizzare sempre più.

Quanto abbiamo detto sul cambiamento di paradigma è vero in generale, riguardo alla natura del comportamento dell’impresa, ma è ancora più vero se si tiene conto della condizione digitale. I posteri sapranno definire meglio di come possiamo fare noi che ci viviamo dentro, quali saranno le date significative per la cronologia dei nostri tempi, come facciamo noi oggi con il Medioevo o il Rinascimento, ma è certo che l’avvento del digitale è una rivoluzione di portata almeno pari a quella industriale. La filosofia del digitale ha introdotto la coppia di termini “online” e “on-life” per descrivere questa condizione, nella quale c’è un continuum per cui la nostra esistenza si svolge in parte nel mondo cosiddetto reale, e per un’altra parte non inferiore nel mondo virtuale, ma anch’esso realissimo, al punto che azioni reali hanno conseguenze virtuali e che azioni virtuali hanno conseguenze reali. L’estensione delle nostre vite, delle nostre società, delle istituzioni e delle aziende a cavallo tra questi due domini del reale genera una complessità dalle ramificazioni pressoché imprevedibili che noi, uomini e donne del nostro tempo, stiamo ancora imparando a gestire.

Forse, tra molti anni, la nostra epoca sarà definita come il tempo dello shock digitale, contraddistinto dall’inevitabile ingenuità diffusa nell’utilizzo dei potentissimi mezzi di comunicazione che improvvisamente ci siamo trovati ad avere nelle nostre mani, a portata di tutti e tascabili proprio come i nostri smartphone, tablet, smartwatch. Forse un giorno la grande questione della proprietà dei dati da parte degli utenti che li producono “gratis” (ma sappiamo che gratis non sono, perché Google, Facebook, Amazon, li sfruttano commercialmente) sarà affrontata e questo cambierà radicalmente il mercato e il nostro modo di operare in esso. Per ora, con una metafora motoristica, potremmo dire che comunicare oggi con il digitale è come trovarsi a guidare una Ferrari senza avere la patente. Come può allora la comunicazione d’impresa salvarsi dal rischio di gravi incidenti e guidare in salvo l’azienda e non solo gli azionisti, ma tutti i suoi stakeholder?

Intelligenza Artificiale e contenuti

Oggi la nuova arrivata (che poi tanto nuova non è) è l’intelligenza artificiale, le cui infinite applicazioni e la cui esponenziale capacità di sviluppo sta facendo sorgere innumerevoli quesiti etici e problematiche concretissime per chi lavora nella comunicazione, come ad esempio il problema delle fake news e della viralità di contenuti falsi ma verosimili prodotti con l’intelligenza artificiale. Il nostro futuro prossimo è destinato a essere popolato di una infinita ricchezza di contenuti digitali verosimili, tra loro opposti e contrari.

Una grandissima sfida per la comunicazione d’impresa sarà quella di riuscire a mantenere la fiducia, talvolta in un gioco di maschere. Ovunque c’è un messaggio, c’è qualcuno che lo crea e qualcuno che lo riceve. Oggi i messaggi sono tanti, in tante direzioni, tutti siamo creatori e ricevitori di moltissimi messaggi e contenuti di informazione. Il venire meno della fiducia è il massimo danno sia per i mercati sia per la comunicazione. Sicuramente, dopo anni in cui il digitale moltiplicando le possibilità di espressione ha fatto percepire in tono minore l’importanza della qualità delle fonti (la crisi dell’editoria si colloca in questo contesto), oggi riconosciamo un maggiore ruolo all’autorevolezza e affidabilità delle fonti di informazione e all’originalità del messaggio.

Si sta aprendo quindi uno spazio ancora più grande per la comunicazione d’impresa, che ha l’occasione di esprimersi appieno proprio alla luce della stakeholder theory, dando voce quindi a tutti i portatori di interessi, conformemente alle necessità di valorizzazione della cultura aziendale rispettivamente ai parametri ESG (Environmental, Social, Governance) che oggi sono il minimo comune denominatore di tutte le grandi aziende, con l’aggiunta della H di Human e di Health che (come dicevo) io preferisco. L’impegno per l’ambiente, per il sociale, per l’inclusione delle persone diverse per cultura, nazionalità, genere, abilità, e la trasparenza nella gestione dell’impresa, sono elementi rispetto ai quali oggi si gioca la reputazione complessiva dell’azienda e occorre impegnarsi facendo emergere non la semplice conformità, l’appiattirsi su uno schema (che come tale è superato e superabile), ma valorizzando l’espressione individuale dell’impresa e delle persone che ne sono coinvolte.

Un cambiamento di paradigma

L’arte ha la capacità di tradurre i concetti in un’immagine, mi viene in mente qui Andy Warhol. Se pensiamo alla sua idea pervasiva della serialità, della ripetizione dell’identico, quello che sta accadendo oggi è un cambiamento di paradigma. Dalla serialità (alla quale neanche Marilyn Monroe o gli individui più eminenti per la loro bellezza o per il loro potere potevano sottrarsi) all’originalità come criterio di guida dell’espressione della comunicazione, anche aziendale. È una suggestione, ma è certo che ogni azienda ha un proprio posizionamento individuale, etico, espressivo.

Intesa Sanpaolo, ad esempio, è stata la prima banca a credere nel sociale non in modo estemporaneo, cioè impegnandosi volta a volta nel sociale come molte banche già fanno, ma con la volontà di associare in modo indissolubile la sua identità aziendale all’impegno sociale. È un binomio, quello di banca e sociale, che prima di Intesa Sanpaolo non era così ovvio e scontato. Noi lo abbiamo fatto e abbiamo scelto questa leva perché la sentivamo affine alla responsabilità che la principale banca italiana ed europea deve avere. Allo stesso modo, ogni azienda ha un posizionamento proprio e le possibilità del digitale lo amplificano enormemente, con il rischio di dilatare comportamenti sbagliati, ad esempio nell’associazione della vendita con la beneficenza.

Un panorama di incertezza

L’analisi sin qui svolta analizza la comunicazione come elemento dialettico delle società industriali avanzate, e ovviamente democratiche. Non prende in considerazione i regimi autocratici, dove essa diventa propaganda, né esamina la comunicazione come elemento parallelo ma centrale nell’informazione relativa alle guerre purtroppo in essere. Nessuno di noi ha modo di verificare in quale misura a Gaza i terroristi di Hamas si fanno scudo dei civili nelle scuole e negli ospedali, se il conteggio dei morti diffuso da Hamas, che trova eco ogni giorno sui giornali occidentali, sia veritiero e se riguardi solo i civili uccisi o anche i terroristi. Non abbiamo modo di verificare se l’aereo russo abbattuto da Kiev conteneva missili di provenienza iraniana o prigionieri ucraini da scambiare. Da questo punto di vista, nella comunicazione di guerra niente è cambiato da secoli, con la sola differenza che prima sapevamo pochissimo o nulla in tempo reale, mentre oggi sappiamo tutto eccetto i passaggi più cruciali e delicati per i quali fanno fede soltanto le opposte verità. La comunicazione si fa sempre più sofisticata ma dal Covid agli ufo, dal terrorismo alle guerre, i complottismi fioriscono in questo panorama di incertezza.

La comunicazione politica

C’è poi, e non è affatto secondaria poiché pervade le nostre vite, la comunicazione politica in senso stretto. Una volta era affidata anche e soprattutto all’interazione diretta tra elettore ed eletto nei collegi; oggi si nutre di contenuti social che rimbalzano sulle tv e sui giornali e spesso si riduce alla pura contrapposizione di slogan buoni a essere declinati nei fatidici trenta secondi delle dichiarazioni ai telegiornali o in un video TikTok. Ritengo dunque che sia fortemente diminuito il dialogo diretto e dialettico sui contenuti non solo con i propri elettori ma con l’opinione pubblica più larga.

Ha scritto Massimo Cacciari su La Stampa: “Cambia il contesto politico e cambia quello dell’informazione. Il sistema attuale o fornisce semplici raccolte di dati o accumula e diffonde nelle sue reti affetti, impulsi, pulsioni, una piena confusa di frustrazioni, rivendicazioni e desideri. Il sistema è organicamente strutturato per rendere impossibile la costruzione di un discorso critico e di un dialogo sulla sua base. Ed è esso che forma oggi l’opinione pubblica e la società civile. I grandi teorici della democrazia contemporanea avevano profetizzato un tale sviluppo già nel corso del XIX secolo. Allora i giornali, che qualcuno chiamava ‘la preghiera laica del mattino’, espressione di tendenze politiche chiaramente definite, dovevano cercare di motivare razionalmente la propria posizione.

Questa esigenza si è fatta via via più debole già col mercato televisivo, dove il discorso ha assunto sempre più le caratteristiche del lancio pubblicitario. Fino a sparire programmaticamente nel multiverso di social e influencer. E in tale tempestoso oceano affonda anche la comunicazione e la propaganda politica. Il politico cerca il proprio consenso nella polverizzazione di opinioni che la rete presenta e riproduce, non si rivolge a soggetti sociali in qualche modo già formati, a sfere di interessi definite, ma a miriadi di puri individui attraverso miriadi di spot. Allora realistico è solo che politica e informazione subiscano il dominio dei nuovi sovrani: i padroni delle reti. È stato detto, con assoluta ragione, che nessun regime del passato disponeva delle possibilità attuali per realizzare un controllo così totalitario dei comportamenti del pubblico. Un controllo che si trasforma in produzione di tendenze e prospettive. Ogni individuo è oggi un addetto di questo sistema, tutti siamo suoi lavoratori dipendenti. Non dovrebbe essere questo l’epocale problema su cui politica e giornalismo discutono invece di smarrirsi in impotenti duelli? Non dovrebbe essere la loro reciproca libertà la questione all’ordine del giorno per entrambi? O è destino che la ‘nuova politica’ finisca con l’identificarsi con la sovranità della rete e l’informazione critica nel museo della democrazia?”.

“Si sa sempre di più, si capisce sempre di meno”

Mi fermo qui, con questa riflessione ad ampio raggio, ricordando che è in questo campo che la comunicazione d’impresa gioca la sua partita, perché in questo scenario ogni impresa è chiamata a dire la sua, a esporsi, a prendere posizione e per farlo serve tanto studio, tanta preparazione, tanto coraggio ma anche tanta moderazione, senso della misura e allenamento a discernere con la calma degli antichi saggi in mezzo a un mondo che cambia sempre più veloce e nel quale è fondamentale instaurare e mantenere un rapporto di fiducia tra chi comunica e chi riceve il messaggio. Jean Monnet già negli anni Sessanta, ben prima dell’avvento del web, diceva: “Si sa sempre di più, si capisce sempre di meno”.

E questa è la grande sfida del giornalismo e della comunicazione di oggi e del futuro: non solo sapere o far sapere di più ma soprattutto capire e far capire di più, con trasparenza, rispetto e consapevolezza. (The Corporate Communication Magazine)