Anche quest’anno l’eco del tifo da stadio sulla spesa sanitaria non accenna a placarsi
di Pietro Romano
Non ce la facciamo più a sentire ultra governativi che inneggiano al record (quasi si fosse sugli spalti di una competizione atletica o natatoria) così come oltranzisti del “è tutto sbagliato, è tutto da rifare” che invece si appellano all’insoddisfacente rapporto spesa sanitaria/prodotto interno lordo, improvvisamente desti da una sorta di sonno letargico che aveva chiuso loro gli occhi per anni. Quando, solo per citare una fonte di certo non filo governativa, già nel 2015 il professor Walter Ricciardi, all’epoca presidente dell’Istituto superiore della sanità, scrisse il volume “La tempesta perfetta – Il possibile naufragio del Servizio sanitario nazionale: come evitarlo” per raccontare, numeri alla mano, il già evidente declino della sanità pubblica nazionale. Lo ha ricordato lui stesso in una recente intervista al quotidiano “La Stampa”.
Il declino emerge evidente in chi, avendo più anni sul groppone, può valutare l’andamento dei servizi sulla propria pelle. Fa fede pertanto una indagine condotta su 5mila iscritti a Cna Pensionati dall’Istituto Tagliacarne e dal Cergas. Indagine dalla quale risulta che la fotografia nell’immaginario degli ultra 65enni è chiara: hanno rispetto al funzionamento del Ssn (che è sempre più regionale che nazionale) una percezione diffusa di regresso.
Nell’arco di tre anni la situazione è peggiorata, per tre intervistati su quattro, sul fronte dei tempi di attesa sia per le visite specialistiche sia per gli esami diagnostici. Per questo un terzo di loro si rivolge ai privati.
Percezioni di anziani brontoloni e un tantino ipocondriaci? Tutt’altro. Una indagine di Sda Bocconi rivela che non si tratta di percezioni. La spesa sanitaria media mensile delle famiglie italiane è salita al 4,5% della spesa complessiva delle famiglie. Brontolii a parte, considerata la congiuntura economica non esaltante (e da lunghi anni), una spesa così elevata non si giustificherebbe se non necessaria.
Quello che colpisce però è che tale livello di spesa è praticamente lo stesso nelle singole regioni. Di conseguenza, al netto di qualsiasi riferimento sull’efficienza e la qualità dei sistemi sanitari, esiste un comun denominatore che unisce le famiglie italiane da Bolzano ad Agrigento. Per sopperire alle carenze pubbliche si deve mettere mano al portafogli e chi non può rinuncia. Un dato economico che si rapporta perfettamente all’indagine sui pensionati citata poco sopra.
Anche sul fronte della percezione di un peggioramento del Ssn non esistono profonde difformità territoriali. Poi diverso è il caso del livello sanitario pubblico nelle regioni che rimane pressoché stabile con in testa il trio Emilia Romagna, Lombardia, Veneto immutato da anni. Così come stabile rimane il divario tra le regioni che spiega, sia pure solo in parte, il costoso fenomeno delle migrazioni sanitarie, un fenomeno che negli anni oltre tutto sta depauperando le regioni meno prospere, drenando risorse e di conseguenza peggiorando l’offerta ai residenti.
L’anno scorso per curarsi fuori dalla propria regione di residenza – secondo il rapporto dell’Agenas – sono stati spesi 2,88 miliardi finiti quasi tutti nelle casse delle tre regioni leader della sanità italiana. Buona parte di questi fondi sono stati trasferiti in un’area già ricca dalle regioni del Sud (tutte tranne il Molise) oltre che da Liguria, Friuli Venezia Giulia, Val d’Aosta e provincia autonoma di Bolzano che chiudono in rosso il conto economico arrivi-partenze. Una situazione che difficilmente è destinata a mutare nel breve-medio periodo.
Probabilmente – è il discorso cinico, ma non troppo, delle amministrazioni – per quanto la mobilità passiva pesi sui conti delle regioni “povere” e sia in rapido aumento anche per regioni “ricche” (è il caso dell’Umbria), i costi rimangono comunque di gran lunga inferiori agli investimenti che sarebbero necessari per garantire cure adeguate sui territori di appartenenza.