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AUTONOMIA DIFFERENZIATA: RICCHI vs POVERI

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L’autonomia differenziata è diventata legge il 19 giugno 2024. Dal sito della Camera dei Deputati si legge: “Il tema del riconoscimento di forme e condizioni particolari di autonomia per le Regioni ordinarie, ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione, si è imposto al centro del dibattito sul rapporto tra Stato e Regioni dopo l’esito non confermativo del referendum sulla riforma costituzionale, anche a seguito delle iniziative intraprese nel corso del 2017 dalle Regioni Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna”

di Luca Lippi

Intanto, le opposizioni hanno raccolto le firme necessarie per contrastare la legge attraverso l’esercizio del referendum popolare. Il tema non è se è giusto o non giusto opporsi alla legge, ma è lo strumento. La decisione rimessa nelle mani di persone che – comprensibilmente – non sanno niente di cosa sia l’autonomia differenziata. Soprattutto non conoscono la genesi, è un ulteriore sgarbo istituzionale che svuota il senso della protesta. Dunque, cerchiamo di capire da dove ha origine questa legge, di cosa si occupa, quali sono le caratteristiche più impattanti da conoscere.

Origine della autonomia differenziata

Il 28 febbraio 2018, a soli quattro giorni dalla scadenza del mandato – prima dell’elezione del Conte Uno – Gentiloni firmò il patto con i rappresentanti del Nord per l’Autonomia Differenziata. Uno sgarbo istituzionale senza precedenti da parte di un governo a guida centrosinistra, stessa guida che oggi raccoglie le firme per il referendum contro l’Autonomia Differenziata.

Cos’è l’autonomia differenziata

È una legge che va riformare il titolo V della Costituzione. Prevede di fatto che le Regioni “possano chiedere” delle competenze speciali che verrebbero sottratte allo Stato. Ci sono dei limiti alle richieste, e tali limiti sono marcati dai LEP – Livelli Essenziali delle Prestazioni -. In sostanza, la Regione che chiederà autonomia su determinate competenze dovrà garantire dei livelli minimi di servizio. I livelli minimi saranno stabiliti dal Governo – di fatto configurandosi un conflitto di interessi – e non dovranno trasferire oneri per lo Stato.

Perchè non va bene?

Banalmente, perché l’Italia non è un Paese omogeneo. Al netto degli sventolii del Tricolore durante le manifestazioni sportive, soprattutto perché le Regioni per potere attuare tutte le nuove competenze, dovranno trattenere il gettito fiscale. In questo modo ogni Regione si “responsabilizza” per cercare di attuare delle politiche a partire da quello che è il PIL della Regione e le tasse pagate nella stessa e quanto poi deve tornare alla singola Regione.

C’è comunque un problema: la ricchezza prodotta va valutata in base anche a dove la si produce? Ad esempio un’impresa toscana che realizza profitti in Sardegna, come un’impresa lombarda che realizza profitto in Calabria. Dove vanno queste ricchezze prodotte? Su quale PIL incidono se poi l’impresa fiscalizza in Lombardia?

I LEP

I livelli essenziali vanno garantiti, e su questo non c’è margine di discussione. Ma se non dovessero essere garantiti? Ovvio che rimane l’onere allo Stato. Se però rimane allo stato, quest’ultimo avrà meno soldi per poterli garantire, giacché la fiscalità rimane nella disponibilità della regione beneficiaria dell’Autonomia differenziata. Le competenze che rientrano nel LEP (livello essenziale o minimo) sono: istruzione; ambiente; sicurezza; lavoro; ricerca scientifica; alimentazione; salute; sport, porti, aeroporti; beni culturali; competenze energetiche. Nell’aggettivo “essenziale” si configura tutto il disastro conseguenziale all’Autonomia Differenziata: le regioni più povere si impoveriscono ulteriormente!

Per quanto riguarda le prestazioni senza livello minimo troviamo: il commercio (interno ed estero); la protezione civile; la finanza pubblica; la riscossione dei tributi. Le Regioni potranno richiedere anche questo senza dover garantire i livelli minimi. Questa riforma minaccia concretamente l’omogeneità dello stato.

La minaccia

Le regioni potranno decidere i programmi scolastici, le procedure di assegnazione delle cattedre, potranno decidere le politiche ambientali. Potranno decidere come gestire le infrastrutture – porti, aeroporti, autostrade… -. Le regioni più povere si troveranno con meno soldi per gestire istruzione, ricerca, logistica…in una parola, viene meno il principio di solidarietà che dovrebbe essere garantito dallo Stato. Parlare di livelli essenziali minimi dovrebbe significare anche la garanzia di uno standard accettabile dei servizi.

Si frantuma il Paese, non che sia una novità! È un film già visto subito dopo il 1861, ma il sequel è stato gentilmente offerto dal COVID. La sanità, che è gestita a livello regionale, ha sottolineato con crudeltà tutte le differenze di un Paese mai nato. Veneto ed Emilia Romagna con una sanità eccellente; quella lombarda (quasi tutta privatizzata) in grande affanno; tutte le altre in grande difficoltà.

La regionalizzazione

L’idea della regionalizzazione in uno stato così diviso per ricchezza, per PIL, per infrastrutture, aumenterà le differenze in maniera drammatica. Qualcuno, per giustificare l’autonomia, ha avuto il coraggio di affermare che si garantirà una spesa regionale delle risorse più attenta e redditizia, ma se dovessimo cercare le prove di questa affermazione, sarebbe sufficiente vedere quello che è successo con la regionalizzazione del sistema sanitario: non c’è stata nessuna responsabilizzazione e nessun miglioramento.

L’autonomia differenziata dei ricchi Vs i poveri

Stiamo per assistere a uno smantellamento istituzionale. Qualcuno dovrebbe spiegare perché un’autostrada pagata con i soldi di tutti, dovrebbe diventare uno strumento di guadagno per la sola regione che, con l’autonomia differenziata, ne disporrà come fosse cosa sua. Perché un campano, un pugliese, un lucano, un calabrese, un laziale, un molisano, che già è costretto dalla grande distribuzione a dovere ricomprare quello che produce nelle sue campagne, dovrebbe farsi carico anche di sostenere i costi di manutenzione infrastrutturali e rinunciare almeno alla redistribuzione del gettito fiscale prodotto e sostenuto anche con i loro soldi, e subire anche l’impoverimento dei servizi essenziali perché lo stato si è fatto “scippare” un quarto del PIL totale.