Intervista a Gian Franco Veraldi, Direttore UOC Chirurgia Vascolare Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata Verona, dal sapere accademico all’innovazione clinica: un viaggio tra formazione, ricerca e pratica chirurgica di alto livello
di Katrin Bove
l Professor Gian Franco Veraldi ha conseguito la Laurea in Medicina e Chirurgia con lode presso l’Università “La Sapienza” di Roma. Specializzandosi in seguito con lode in Chirurgia d’Urgenza e Pronto Soccorso e in Chirurgia Vascolare. Ha quindi conseguito l’Abilitazione Scientifica Nazionale alle funzioni di Professore Universitario di II Fascia nei Settori Concorsuali 06/C1 – Chirurgia Generale e 06/ E1 Chirurgia Cardio-Toraco-Vascolare. Ha conseguito i Diplomi di Master EMMAS XII (Executive Master in Management delle Aziende Socio-Sanitarie e Socio-
Assistenziali) presso la Scuola di Direzione Aziendale dell’Università Commerciale “Luigi Bocconi” di Milano, il Certificato di Formazione Manageriale per Dirigenti di Struttura Complessa e l’Attestato di Formazione Manageriale per Direttori Generali presso la Fondazione Scuola di Sanità Pubblica della Regione Veneto. Risulta iscritto nell’elenco degli abilitati al ruolo di Direttore Sanitario della Regione Veneto. Nel 1989, 1996, 2001, 2002 e 2017 ha trascorso periodi di studio all’estero lavorando negli Stati Uniti, in Francia e nel Regno Unito.
Nel settore della chirurgia vascolare ha eseguito circa 8.500 interventi
Dal 2015 è Direttore dell’Unità Operativa Complessa di Chirurgia Vascolare dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona. È Segretario della Consulta dei Primari dell’AOUI di Verona ed è stato nel Consiglio Direttivo del Collegio Nazionale dei Primari di Chirurgia Vascolare. Dal 1988 ad oggi ha eseguito, in elezione e in urgenza, circa 8.500 interventi chirurgici, di cui oltre 6.000 da primo operatore. In particolare, nel settore della Chirurgia Vascolare ha eseguito circa 2000 ricostruzioni aortiche, oltre 2.000 rivascolarizzazioni periferiche e oltre 1.500 rivascolarizzazioni cerebrali. Con tecnica chirurgica tradizionale e con metodiche endovascolari o ibride.
È Professore a contratto (SSD MED 22) presso le Scuole di Specializzazione di Chirurgia Vascolare dell’Università degli Studi di Padova e presso le Scuole di Specializzazione in Ortopedia, Cardiochirurgia e presso il Corso di Laurea in Fisiopatologia Cardiocircolatoria e Perfusione Cardiovascolare della Scuola di Medicina e Chirurgia dell’Università degli Studi di Verona. È Autore di 217 Pubblicazioni Scientifiche con H-Index=18, Reviewer per le più importanti Riviste Mondiali di Chirurgia Vascolare. Fa parte dell’Editorial Board del Journal of Vascular Surgery Cases Innovations and Techniques ed è socio di numerose Società Chirurgiche e Scientifiche Nazionali e Internazionali.
“Mi scusi, ma oggi è una mattinata dedicata alle visite”.
Di che cosa si trattava in questo caso?
“Era un grosso aneurisma dell’aorta addominale, iuxta- renale. Il paziente è portatore di una “shagghy aorta” cioè un’aorta “spazzatura”, contenente un enorme quantità di trombo murale. In un altro Ospedale di un’altra Regione era stato proposto un trattamento endovascolare, che io assolutamente non farò. Procederò con un trattamento chirurgico aperto, perché in questo caso se si procedesse con guide, introduttori e cateteri, si correrebbe il rischio di causare degli emboli, mobilizzando i trombi che possono anche uccidere il paziente. In questo caso, bisognerà fare un campaggio sovrarenale, fare la perfusione con Custodiol di entrambi i reni e ricostruire tutta l’aorta dalle renali fino alla biforcazione delle arterie iliache, facendo quindi un innesto protesico aorto- bisiliaco. Un intervento molto impegnativo, che nell’Unità Operativa che dirigo sappiamo eseguire molto bene. Consideri che ogni anno operiamo circa 150 pazienti affetti da questa patologia”.
Qual è l’importanza della diagnosi precoce?
“È fondamentale, perché l’aneurisma dell’aorta è una malattia assolutamente silente e quando provoca disturbi, purtroppo “i buoi sono già scappati”, nel senso che di solito la diagnosi è occasionale, a seguito di un’ecografia che viene eseguita abitualmente per altri motivi. Per esempio, nel caso di una donna, se ha dolori pelvici, nel caso di un uomo se ha dolori addominali, magari provocati da una sospetta calcolosi della colecisti. Il paziente di questa mattina, ad esempio, sapeva di avere l’aneurisma perché aveva fatto un’ecografia consigliata dall’Urologo per problemi alla prostata. Quando l’aneurisma viene trovato, il paziente va educato a fare il monitoraggio, perché non sempre si ha un’indicazione immediata all’intervento chirurgico: si deve fare periodicamente un’ecografia e quando l’aneurisma raggiunge la dimensione di 5-5,5 cm. si passa ad un esame TAC, in modo tale da avere la “cartina stradale” per poter procedere con l’intervento chirurgico”.
Lei parlava un momento fa del trattamento open. Sono in molti a ritenere che sia un grave problema il fatto che le nuove generazioni di medici non sappiano praticare il trattamento open. Lei è d’accordo?
“Assolutamente sì. È un grosso problema. Tenga presente che nella mia Divisione facciamo ogni anno il 60% di trattamenti endovascolari e un 40% di trattamenti open. Per mia formazione iniziale, arrivo dalla chirurgia open, poi nel corso degli anni ho dovuto aggiornarmi, evolvermi e andare ad imparare tutti i trattamenti endovascolari, fino a quelli più avanzati, in modo tale da fornire al paziente il miglior trattamento possibile. Perché è evidente che se un chirurgo sa fare solo un tipo di intervento, proporrà al paziente esclusivamente quel tipo di intervento che è capace di fare, il che è sbagliato per l’interesse del paziente. Esistono le indicazioni al trattamento chirurgico aperto e quelle al trattamento chirurgico endovascolare.
Il chirurgo vascolare moderno deve essere in grado di poter fornire entrambi i tipi di metodica per il bene del paziente. Sto cercando nella mia Divisione di far crescere i miei Aiuti in modo tale che siano in grado di attuare entrambi i tipi di trattamento”.
La dotazione tecnologica della sua Divisione è sufficiente?
“Come sa la tecnologia è in continua evoluzione e qualsiasi reparto chirurgico è costretto ad adeguare le sue strutture ed ad acquisire gli strumenti per operare che diventano sempre più sofisticati. La dotazione di cui ci avvaliamo ci consente di svolgere interventi di altissimo profilo”.
A suo avviso, in Italia vengono valorizzate le eccellenze come la sua? Faccio questa domanda perché dal suo curriculum si evince che lei conosce molte realtà di altri Paesi
“Per quanto mi riguarda sono assolutamente contento. Ritengo di rappresentare un’eccellenza per l’Università di Verona e per l’Ospedale dove lavoro e ritengo di essere stato e di essere valorizzato adeguatamente rispetto all’attività professionale svolta. Ho sempre lavorato in reparti universitari e pur essendo ospedaliero di vecchissima data – circa trent’anni – ho sempre avuto ottimi rapporti con l’Università e sono ben felice di lavorare qui a Verona”.
Che impatto ha avuto la pandemia da Coronavirus sul settore cardiovascolare?
Ha creato problemi inenarrabili. Dovevamo pensare agli infetti ed è saltato completamente tutto il sistema di follow-up, i controlli dei pazienti, perché chi aveva un aneurisma dell’aorta non si è più controllato. Mi sono capitati in urgenza pazienti che, sapendo di avere l’aorta rotta, mi hanno detto con un fil di voce ‘non ho fatto il controllo’. Il Coronavirus, per lo meno nella prima e nella seconda ondata, aveva un forte tropismo per i vasi ed ho avuto esperienza personale di pazienti che operavamo per ischemia acuta degli arti inferiori che recidivavano in una maniera impressionante. Venivano riaperte le arterie che si richiudevano nel giro di qualche ora.
C’è stato un tasso di amputazioni molto importante e fuori dal comune, ma questo non legato al fatto che non fossimo più capaci di operare, a nostre negligenze per intenderci, ma alla virulenza del virus, che ha massacrato un’intera generazione. È stato un dramma. Grazie a Dio ne siamo fuori e ne sono veramente felice”.
Quali sono i problemi principali della sanità italiana?
“Il problema più importante che vedo è relativo alle giovani generazioni. Tra i giovani medici quasi nessuno vuole più fare il chirurgo perché è una professione difficile, che richiede lunghi anni di studio, di sacrifici e di acquisizione delle metodiche d’intervento. E’ un mestiere con cui si guadagna poco, si rimane tante notti in piedi, col sacrificio di tanti week-end, con il rischio concreto di ritrovarsi a doversi difendere da denunce che, in oltre il 95% dei casi, documentano assenza di malpractice. Le giovani generazioni sono, nella maggior parte dei casi,
evidentemente poco propense ad affrontare una vita di questo tipo. Noi che cerchiamo di formarli, dobbiamo cercare di trasmettere loro la grande soddisfazione di fare interventi importanti, che siano svolti di giorno o di notte. Perché con questi interventi si crea un manufatto artigianale, sia che si faccia in open, sia che venga fatto con la tecnica endovascolare. Si crea un’opera d’arte che è unica per quel paziente. Questi sono gli aspetti positivi di questo mestiere, che è fatto con le mani, per cui ci vuole tanta esperienza, tanta dedizione e spirito di sacrificio. La soddisfazione di dare a questo tipo di malati una prospettiva di vita, tirandoli fuori da problemi che possono pregiudicarla, ridonare il sorriso e la serenità ai malati e ai loro parenti, ripaga di tutti gli sforzi che si possono fare”.