Negli ultimi anni, causa inflazione, non si è fatto altro che sentire parlare di tassi di interesse. Ancora prima, l’argomento quotidiano era la base monetaria, aumentata col QE prima e ridotta col QT poi. La manipolazione dei tassi, il QE e il QT, sono importanti strumenti a disposizione delle banche centrali per pianificare le politiche monetarie
di Luca Lippi
Tuttavia negli ultimi mesi emerge un consistente cambio di rotta. Gli strumenti di cui sopra sono sempre meno rilevanti: sembra quasi che la preoccupazione maggiore non sia più quella di correggere (più o meno tempestivamente) la curva dell’inflazione.
Cambio di regime
Per stimolare l’economia di un paese nei periodi di difficoltà si è sempre ricorsi al deficit di bilancio. Questo accadeva principalmente quando la disoccupazione assumeva dimensioni preoccupanti. In sostanza il settore pubblico interferiva nell’economia per diluire le difficoltà. Fino a tutto il 2016 le curve della disoccupazione, della recessione e dei grandi deficit, hanno sempre “rotato” sullo stesso binario. Solo a cavallo tra il 2016 e il 2017 le curve hanno cominciato a divergere. La ragione della nuova forbice tra il tasso di occupazione e il deficit ha avuto origine dalla decisione della presidenza Trump di tagliare le imposte sulle società. Nonostante l’assenza di segnali negativi per l’economia e l’occupazione. Questo ha elevato il livello di deficit senza che ce ne fosse bisogno.
A questo cambiamento di rotta si aggiunge anche l’aumento esponenziale di persone che raggiungono l’età pensionabile e la drastica diminuzione di persone lavorativamente attive. Meno imposte raccolte e maggiori servizi tra sanità e pensioni accelerano l’ampiezza dei deficit di tutti i paesi occidentali. Nel 2020 e 2021 arriva la crisi pandemica, l’economia si paralizza e per sostenere un livello minimo di sopravvivenza gli stati hanno iniettato liquidità in modo massiccio. Accelerando il processo già accelerato di creazione di deficit. Nella sostanza sono almeno cinquant’anni che il debito pubblico degli stati aumenta più velocemente del PIL. Nonostante la vulgata che questa dinamica sia in assoluto nefasta, concretamente non lo è dal momento che i tassi sono stati a zero fino a tre anni fa.
Se il debito si raddoppia ma i tassi di interesse diminuiscono, il costo degli interessi non è più un problema. Per chi non comprendesse la dinamica, la sostenibilità di un debito da parte di uno stato è valutata sulla capacità di quest’ultimo a coprirne gli interessi. Ultimo motivo che sottolinea il cambio di regime è il settore privato che ha avuto la possibilità di indebitarsi a lunghissimo termine (trent’anni) a basso tasso di interesse. Le aziende emettendo obbligazioni e altri sottoscrivendo mutui a tasso fisso.
Tassi e inflazione
Negli anni settanta, per combattere la ferocia dell’inflazione del periodo, è stato sufficiente alzare decisamente i tassi di interesse sortendo un’adeguata risposta di contrasto. Il debito pubblico era molto basso all’epoca e le spese derivanti dagli alti tassi di interessi sono state coperte quasi esclusivamente dal settore privato. Il quale ridusse l’attività economica e permise all’inflazione di scendere velocemente. Oggi, dopo quarant’anni di continui aumenti di deficit e debito pubblico, basandosi sulla riduzione costante del tasso di interesse, toccato il fondo dei tassi a zero, il rimbalzo ha provocato l’inceppamento delle logiche di politica monetaria fino ad oggi rituali.
Il QT e l’innalzamento dei tassi di interesse per raffreddare l’economia e fare scendere l’inflazione al limite del 2 per cento, faticano a ottenere risultati. Questo il motivo per cui sia la FED sia la BCE stanno cambiando rotta sulla politica di taglio dei tassi. La prima ha rinunciato, la seconda ha fatto un taglio di prova ma già la curva inflattiva ha ripreso lievemente a contro tracciare. Purtroppo, usando metodi consolidati ma non più adeguati, ogni decisione impatta pressoché zero sul settore privato. Per chi ha un mutuo trentennale a 0% o finanziato l’impresa con obbligazioni trentennali a 0%, che la banca centrale manipoli i tassi non impatta minimamente su questa enorme platea di ex indebitati a tassi zero.
Negli USA il tasso di inflazione da un anno fatica a scendere sotto il tre per cento. Quindi potremmo anche dimenticare un taglio di tassi a breve.
Perchè non scende l’inflazione
Alla luce di quanto esaminato fino ad ora, l’inflazione fatica a scendere perché a differenza degli anni 70 oggi le politiche monetarie tradizionali sono inefficaci. Il settore pubblico è in enorme sofferenza e i costi di rifinanziamento del debito sono sempre più pesanti e creano deficit “cattivo”.
Fiscal dominance
Allo stato dell’arte, con alti debiti pubblici e deficit strutturali, l’impatto sull’economia diventa più rilevante rispetto a quello delle politiche monetarie di una banca centrale. Questa condizione è definita “fiscal dominance”. Ovviamente non significa che la fiscal dominance risolva il problema e la banca centrale. Significa che i governi non correggono i deficit di bilancio e quindi gli strumenti delle banche centrali (monetary dominance) diventano ininfluenti. L’effetto medio dell’inflazione generata da un deficit elevato risulta essere fino a cinque volte superiore rispetto a un regime di monetary dominance.
È un cambio di regime strutturale
Il dualismo tra banche centrali e Tesoro, più specificatamente, tra FED e Tesoro americano – è l’economia più grande del mondo, quindi fa scuola – si è evidenziato nell’ultimo trimestre del 2022 quando il mercato (S&P500) era ai minimi. La liquidità nel sistema era molto scarsa, era già cominciato il QT, quindi il Tesoro ha cominciato a “spargere” liquidità sul mercato limitando il QT della FED.
Alla fine del 2022 la liquidità complessiva ha arrestato la sua discesa creandosi una stagnazione (non sale ma neanche scende, laterizzazione della linea grafica) e il mercato azionario ha cominciato a salire. I mercati finanziari sono estremamente sensibili alle variazioni di liquidità. Quello che è successo negli USA è la stessa cosa di quello che è successo nel resto delle economie mondiali. Quindi questo cambio di regime ha l’aria di essere tutt’altro che passeggero. Il nuovo regime sarà impattante sui bilanci degli stati, ma prendendo atto che i mercati hanno accolto con entusiasmo la stabilizzazione della discesa della liquidità globale e meno l’abbassamento dei tassi che gravano sugli interessi dei debiti, c’è da credere che il cambiamento non provocherà alcuna catastrofe.
L’investitore nel nuovo scenario
Piuttosto banale fare presente che un investitore non può affrontare il nuovo scenario con lo stesso approccio degli ultimi quarant’anni. Un portafoglio titoli classico (gergalmente riconosciuto come 60/40 – 60 percento azionario 40 per cento obbligazionario -) ha tutelato il risparmio degli italiani dagli anni 80 fino a tutto il 2020. Storicamente, è corretto ricordare a chi non si occupa professionalmente di finanza, che lo stesso portafoglio non ha avuto buoni auspici per chi lo ha adottato dagli anni 50 fino agli 80. Il 60/40 è un portafoglio che funziona in un contesto disinflattivo con riduzione strutturale dei tassi di interesse, deficit crescenti e debiti pubblici che lievitano come panettoni.
Nell’ottica attuale di inflazione che non riesce a scendere, i tassi non possono scendere e gonfiano ulteriormente i debiti pubblici che creano alti deficit e soffiano sull’inflazione, il 60/40 non è più sufficiente. Fortunatamente oggi abbiamo gli ETF che bilanciano abbastanza bene gli investimenti, da concordare i migliori con l’aiuto di un esperto.
A questo punto è piuttosto semplice comporre un portafoglio di tutela che non sia più su due pilasti (azionario 60 e obbligazionario 40) ma che appoggi su almeno tre pilastri. Un esempio: azioni energetiche; asset pro inflazione; materie prime… Obbligazioni: tutte ma a scadenza non superiore ai dieci anni o comunque diluite.
Il primo investimento per stare tranquilli è quello di un buon consulente, il fai da te è la strada più veloce per schiantarsi se non si è esperti e soprattutto aggiornati tempestivamente.