I consumatori sono sempre più attenti a dove e come spendere i loro soldi. La ristorazione, che è decisamente voluttuaria, rientra nel ripostiglio delle rinunce fattibili, le cause sono i prezzi prima ancora del “taglio” di una spesa. L’Italia ancora si difende sia nei dati macro sia nella fiducia dei consumatori, ma è uno stato di grazia che non può durare a causa dei venti che arrivano da economie assai più solide
di Luca Lippi
Il commercio al dettaglio, ormai da due anni abbondanti, manifesta segnali preoccupanti di contrazione. Il settore della ristorazione, pur esprimendo una sostanziale resistenza, soffre enormemente. Se – come è stato per un decennio dalla nefasta proliferazione dei centri commerciali – la responsabilità maggiore per il deterioramento della rete commerciale artigianale era da imputarsi alla grande distribuzione prima, e alle vendite online poi, oggi la crisi sta investendo anche loro.
L’osservazione del fenomeno fa riferimento sempre alla più grande economia del mondo, gli USA, dove i numeri sono importanti e le tendenze più delineabili.
Riduzione drastica di consumi e spese
L’80 per cento degli americani – ma la cosa non è diversa in Europa – ormai considera andare al ristorante un lusso. Una precisazione è obbligatoria: negli Stati Uniti andare al ristorante significa sedersi nei fast food, i ristoranti veri e propri esistono solo in alcune località turistiche e hanno, da sempre, costi piuttosto importanti.
La colpa è del tasso di inflazione cumulativa. Sebbene siamo in una fase di forte rallentamento dell’inflazione – gli analisti parlano di traiettoria disinflazionistica – osservando i prezzi dei beni a paniere, questi stanno ancora aumentando! Il tasso di inflazione cumulativa, banalmente, senza ricorrere a inutili e incomprensibili definizioni da manuale, è quello che si nota facendo la spesa. Quello che si poteva acquistare con 20 euro, oggi costa 25/26 euro. Ecco, quei 5/6 euro rappresentano l’inflazione cumulativa. Quando si festeggia la discesa dell’inflazione, gioiscono solo i banchieri e i debitori, i prezzi non scenderanno, al consumatore rimane attaccata a vita l’inflazione cumulativa.
È utile visualizzare la consistenza di questa inflazione che in Italia -settore food – è la seguente:
Nella tabella mancano aggiornamenti al 2024, alcuni prezzi sono ulteriormente aumentati. La lieve diminuzione di alcuni alimenti è dovuta al fatto che i produttori cercano di contrastare la diminuzione del consumo. Nonostante l’inflazione in Italia sia regredita ai livelli del 2019, nella colonna denominata “tasso d’inflazione” si evidenzia il tasso di inflazione cumulativo. Quest’ultimo si ottiene dividendo il prezzo corrente col prezzo del 2019 meno uno, poi si moltiplica per cento allo scopo di ottenere la percentuale. Alcuni produttori hanno deciso di ridurre i prezzi per combattere il carovita, in realtà – la pragmaticità che manca all’uomo qualunque che soggiace agli slogan – il carovita non c’entra niente, abbattono i prezzi per non perdere clienti.
Il produttore cerca di conservare il suo mercato applicando sconti al listino, ma non è scontato che al consumatore finale arrivi il taglio, perché il distributore vuole marginare più che possibile.
Consumatori più attenti
Oggi, il consumatore è molto più sensibile ai prezzi. Gli stipendi non aumentano, la certezza del lavoro in futuro non c’è, i risparmi si contraggono perché non c’è più la capacità oggettiva di accantonare. Un esempio banale per comprendere meglio la situazione: lo stipendio medio annuo in Italia nel 1919 era di circa 30 mila euro lordi. Nel 2023 la media lorda degli stipendi è salita a 30.284 euro l’anno. Nel 2019 la panna al chilo costava 3,30 euro. Oggi costa 5,80 euro (+ 75%). Il latte da 0,70 è passato a 1,40 euro nel 2023 (+ 100%). Il “Cornetto” classico (gelato) nel 2019 costava 1,80 Euro, oggi lo stesso prodotto costa 2,20 ed è anche più piccolo. In sintesi: se con uno stipendio di 1700 euro nel 2019 si potevano comprare 944 Cornetti (gelato), oggi i cornetti acquistabili sono 772. L’inflazione cumulativa si è mangiata 172 gelati.
Quello che “si mangia” il tasso d’inflazione cumulativa è un segnale della potenziale capacità di risparmio completamente annullata. Anche le aziende cominciano soffrire gli aumenti delle materie prime e subiscono anche la riduzione dei consumi. A fronte di tutto questo, cercano di ridurre le ore lavorative dei propri dipendenti. Quando si parla di salario minimo, bisogna fare attenzione anche a questo aspetto. La paga oraria può anche aumentare ma non risolve il problema del carovita perché le aziende per sopravvivere riducono il numero delle ore. In un’economia che ha un PIL sostenuto per l’80 per cento dai consumi, la riduzione del numero di salari e l’incapacità di spesa dei salariati è un problema serio di “crescita economica”.
Gli utili del food
Guardando l’Italia, che comunque ha un forte appeal turistico – sostiene il settore della ristorazione – al netto di un recupero dai livelli pre covid, oggi galleggia. L’occupazione nel settore è prettamente stagionale e molti contratti si autoalimentano con le agevolazioni per l’apprendistato. Il dato che conta è che il 50 per cento delle attività in ripresa dopo il covid, oggi sono chiuse perché non ce l’hanno fatta. Anche qui in Italia, “mangiare fuori” – al netto di pochi privilegiati che ancora possono permettersi i ristoranti di un certo livello – si è trasformato nella frequentazione del fast food – che nel Belpaese è rappresentato dall’aperitivo rinforzato -.
Negli Stati Uniti – riferimento importante per numeri, come specificato sopra – le grandi catene di fast food (McDonald’s, Burger King…) rispondono al cambiamento delle abitudini di consumo, alternando offerte di base diminuendo i prezzi. Il rischio di questa strategia è la riduzione dei margini, rischio al quale, nel breve termine, si può fare fronte automatizzando e rinunciando al personale. La conseguenza è quella di mortificare l’occupazione (danno per il PIL) e anche quella di mettere in difficoltà i gestori. McDonald’s da anni concede il marchio in franchising, stessa cosa succede per Burger King, in ogni caso la guerra al ribasso trascina le attività alla bancarotta. E’ un problema che coinvolge anche altre catene (Kentucky Fried Chicken, Quick, Old Wild West, Taco bell, Wendy’s, Pizza Hut, In-N-Out Burger, Fuddruckers, Subway, Five Guys, Jollibee, Big Boy Restaurants e Hans im Glück…), tutte queste catene cercano di barcamenarsi con offerte a fascia oraria, per spingere la domanda nelle fasce orarie meno trafficate, lo scopo è di recuperare profitti – questo sistema si chiama “prezzi dinamici” – ma il rovescio della medaglia è quello di frammentare ulteriormente la spesa dei consumatori.
Il pessimismo
Il rimbalzo di spesa seguito al lockdown è finito. Le persone hanno speso i soldi che non avevano potuto spendere per le chiusure, di colpo si sono resi conto che non potevano continuare a vivere a un ritmo del tutto inusuale, oltretutto, bisogna anche essere abituati a disporre di denaro, altrimenti lo si butta via in cose inutili. L’inflazione ha messo di fronte lo specchio della realtà. Gli stipendi non consentono di sostenere gli aumenti che sono stati veloci e violenti. L’incapacità di riuscire a fare fronte a tutte le spese, soprattutto l’incapacità di risparmiare per le emergenze, sta irrigidendo i comportamenti di spesa, anche quelli di persone che potrebbero permettersi di continuare a spendere. L’illusione di poter comprare a debito è un serpente che si morde la coda e le carte di credito saranno l’ultimo velo ad opacizzare una realtà ineluttabile.
La fiducia dei consumatori negli Stati Uniti è in forte flessione, ai minimi nei sei mesi, non credono più in una possibilità di ripresa economica. Facciamo un altro esempio per chiarire questa dinamica. Fino a dieci anni fa i commercianti ordinavano merce a debito (cambiali, postdatati e fidi bancari) perché sapevano di potere fare fronte agli impegni presi, oggi non è più così; i primi ad essere terrorizzati sulla capacità di vendita sono loro. In ogni caso, anche se volessero farlo, i fornitori non scaricano più la merce se non è pagata, anche questi ultimi sanno che non possono fidarsi sulla capacità futura del commerciante di poter pagare.
Il mondo del lavoro, ormai ovunque, non è più robusto come poteva esserlo dieci anni fa, e se non c’è adeguamento dei salari all’inflazione, ma soprattutto, se non c’è sicurezza di lavoro futuro, si genera una paura che nel medio termine alimenta il pericolo recessivo. Tutto questo disordine rallenta anche la discesa dell’inflazione e mette in difficoltà le politiche monetarie delle banche centrali.
Maggiore consapevolezza
Non c’è alcuna lettura apocalittica in quello che è stato analizzato e commentato sino ad ora, è solo la necessità di accompagnare alla consapevolezza. Un investitore di breve e medio termine deve essere consapevole dello stato delle cose per decidere come investire, nessun governo o banchiere pubblicizzerà mai questa situazione, proprio per non “stuzzicare” la fiducia dei consumatori, piuttosto accade il contrario.