Intervista a Rocco Giudice, Direttore UOC Chirurgia Vascolare dell’Azienda Ospedaliera San Giovanni Addolorata di Roma, sull’evoluzione della chirurgia vascolare moderna e sull’impatto delle innovazioni tecnologiche nel settore
di Riccardo Romani
Rocco Giudice è laureato in Medicina e Chirurgia e specializzato in Chirurgia Vascolare presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma. Dopo un periodo di formazione e training in Chirurgia endovascolare negli Stati Uniti presso l’Harbor-UCLA Medical Center di Torrance, in California, l’Arizona Heart Institute a Phoenix, in Arizona e lo Union Memorial Hospital a Baltimora, in Maryland, è stato assunto come dirigente medico presso l’U.O.C. di Chirurgia Vascolare dell’Azienda Ospedaliera San Giovanni Addolorata di Roma, di cui oggi è Direttore. Autore di oltre 50 pubblicazioni su riviste scientifiche nazionali ed internazionali, è membro della Società Italiana di Chirurgia Vascolare ed Endovascolare, della European Society for Vascular Surgery, della International Society of Endovascular Specialists e del Collegio dei Primari Ospedalieri di Chirurgia Vascolare.
Com’è cambiata la Chirurgia Vascolare negli ultimi vent’anni?
È cambiata in maniera radicale, perché siamo passati da una chirurgia che prevedeva procedure gravose per il paziente ad un utilizzo sempre più frequente ed estensivo di metodiche mininvasive, con possibilità di eseguire l’intervento e risolvere il problema senza taglio chirurgico. Questo ha comportato un generale e significativo progresso sia in termini di esiti – perché la mininvasività della procedura si accompagna ad una riduzione dei tassi di complicanze e di mortalità – sia per il fatto che questo tipo di chirurgia può essere offerto ad un numero di pazienti sensibilmente maggiore: oggi gli ultraottantenni, a volte anche i novantenni, possono giovarsi di queste terapie e far fronte a patologie potenzialmente mortali.
Quali sono state le principali innovazioni degli ultimi anni?
Sono legate ad una diversa filosofia di trattamento. Si è passati da un approccio chirurgico diretto all’arteria, che prevede la sua riparazione con tecniche di endoarteriectomia o di sostituzione mediante innesti protesici o biologici, ad un approccio endovascolare che prevede la navigazione all’interno del vaso: in presenza di lesioni ostruttive che ostacolano il flusso del sangue, si agisce con palloncini o stent che consentono di riaprire il lume e, viceversa, se ci si trova di fronte a malattie dilatative – gli aneurismi – si va ad inserire, sempre dall’interno, una cosiddetta endoprotesi che si espande nel vaso, si fissa a monte ed a valle del segmento malato e dilatato, così da reindirizzare il flusso del sangue all’interno della protesi stessa, prevenendo la rottura dell’aneurisma.
La chirurgia tradizionale è stata del tutto sostituita?
Assolutamente no. La chirurgia tradizionale ha ancora il suo legittimo spazio nei casi che non sono eleggibili per procedura endovascolare o laddove il trattamento mininvasivo non garantisca validi risultati in termini di esiti a distanza. Esistono, quindi, ancora diverse situazioni in cui la chirurgia tradizionale mantiene il suo insostituibile ruolo, motivo per il quale il chirurgo vascolare moderno deve necessariamente padroneggiare entrambe le tecniche.
Alcuni suoi colleghi affermano che le nuove generazioni mediche non conoscono bene la chirurgia tradizionale. E’anche lei di questo avviso?
Si tratta di un problema di quest’epoca formativa: con la diffusione delle tecniche mininvasive gli specializzandi ed i giovani chirurghi vascolari hanno meno possibilità di prendere parte ad un intervento di chirurgia tradizionale e, quindi, di formarsi sulla chirurgia aperta. Peraltro non solo la chirurgia tradizionale si fa sempre meno, ma i casi ad essa destinati – perché non trattabili con tecnica endovascolare – sono generalmente sempre più complessi.
È un problema ben presente agli operatori del settore e, in particolare, alle strutture universitarie che sono istituzionalmente deputate alla formazione e ci sono varie idee in proposito, come ad esempio quella di centralizzare, per un periodo, la formazione degli specializzandi presso Istituzioni che si dedichino prevalentemente alla chirurgia aperta.
Lei usa la Telemedicina? La ritiene utile?
Abbiamo varie implicazioni con la Telemedicina. Per esempio, nel mio reparto è già prassi l’attività di vedere a distanza esami diagnostici quali la TC, così come sono già attivi, nell’ambito della rete dell’emergenza ospedaliera, sistemi di consulto e confronto a distanza con colleghi di Ospedali che a noi afferiscono.
Che impatto ha avuto negli ultimi anni la pandemia sulle malattie cardiovascolari?
La pandemia ha avuto sicuramente un impatto drammatico nella vita personale e professionale di tutti noi, a prescindere da quello che possa essere stato il nostro coinvolgimento diretto nel fronteggiare il Covid. Sono stati stravolti i criteri organizzativi degli ospedali e per diversi mesi abbiamo avuto un andamento, per così dire, “a fisarmonica”, in cui si aprivano e si chiudevano reparti in funzione dell’andamento della pandemia. Inoltre, ci sono state delle specifiche implicazioni di carattere fisiopatologico del Covid in ambito vascolare, perché si è capito che quella che sembrava essere una sindrome prevalentemente respiratoria, di fatto è una vera e propria malattia sistemica, che genera problemi sulle funzioni dell’endotelio – lo strato di rivestimento interno dei vasi – e sulla coagulazione del sangue, con possibilità di trombosi.
Che incremento hanno avuto queste complicanze?
Non ho dati precisi. Quello che risulta chiaro è che, soprattutto nella fase cruciale della pandemia, tutti i centri di chirurgia vascolare hanno registrato un incremento di sindromi trombotiche, sia sul versante arterioso (ischemie) sia sul versante venoso.
Quest’incremento continua in questo periodo?
Direi di no. In questa fase, l’andamento epidemiologico di questo tipo di eventi mi sembra sovrapponibile all’epoca pre-pandemica. Non ho dati specifici al riguardo, ma la sensazione è che si sia tornati ad una fase, per così dire, di normalità.
Sulle mancate diagnosi cosa può dire?
Purtroppo – e questo è un problema che riguarda, oltre alle patologie cardiovascolari, anche quelle oncologiche – durante la pandemia si è ridotta la possibilità di accesso dei pazienti agli Istituti di cura e le attività maggiormente penalizzate sono state quelle di screening e di follow-up. La conseguenza è che oggi molti pazienti pagano il prezzo di diagnosi tardive e tutto ciò ha favorito la comparsa di complicanze a distanza ed esiti meno favorevoli
Torniamo al tema dell’innovazione. In base alla sua lunga esperienza, che cosa può prevedere in termini di innovazione nel suo settore di attività?
L’innovazione va di pari passo con la tecnologia. Riflettevo l’altro giorno, conversando con un mio collaboratore, su come sia cambiato il concetto di telefono cellulare negli ultimi quindici anni: a metà degli anni duemila era un dispositivo che usavamo quasi esclusivamente per telefonare, oggi racchiude, nel bene e nel male, la vita di ognuno di noi. Se questo avviene per una tecnologia di uso quotidiano, figuriamoci che cosa dobbiamo e possiamo aspettarci per la tecnologia medicale. Oggi si fa un gran parlare di Intelligenza Artificiale, Realtà Virtuale, Realtà Aumentata; è chiaro che si va in questa direzione e che il progresso in tal senso potrebbe avere un andamento esponenziale. La tecnologia ci consentirà sicuramente di fare tante altre cose ma anche di fare meglio quello che già facciamo.
Lei non pensa che ci sia una buona parte di persone che rimette troppa fiducia nell’Intelligenza Artificiale, volendo mettere da parte l’umano?
Da questo punto di vista direi che io ho una visione ottimisticamente romantica, per così dire, nel senso che sono convinto che il ruolo centrale sarà sempre quello dell’uomo. È chiaro che con lo sviluppo dell’Intelligenza Artificiale tutto quello che potrà essere automatizzato sarà automatizzato. Dovremo essere noi bravi a cogliere il positivo di questa opportunità ed a prevenirne le possibili degenerazioni.