Dolore cronico: la grave situazione di questa patologia nel nostro paese e la necessità di diagnosi tempestive e terapie personalizzate per migliorare la qualità della vita dei pazienti
di Katrin Bove
Per molto tempo il dolore è stato considerato esclusivamente un sintomo e solo negli ultimi decenni è stato riconosciuto come una malattia a sé stante, che necessita quindi di un adeguato trattamento. Il dolore si può distinguere in acuto o cronico: il primo è un dolore improvviso che dura meno di tre mesi, ha una causa specifica e scompare dopo un corretto trattamento. Il secondo è un dolore continuo, che dura più di tre mesi, colpisce persone di varie età in qualunque parte del corpo, deriva da molteplici patologie croniche e spesso viene mal diagnosticato. Può essere, inoltre, causato da un problema di fondo che la chirurgia non è in grado di guarire e necessita di trattamenti volti esclusivamente a ridurlo.
Il dolore cronico è considerato una delle più debilitanti e costose patologie in Europa con il 19% degli adulti che soffre di un dolore da moderato a grave. In Italia la situazione è ancora più grave: il nostro Paese si classifica terzo in Ue in termini di prevalenza e gravità, con una percentuale che oscilla tra il 21,7% e il 26%.
Si stima che 1 italiano su 4 soffre di dolore cronico
In sostanza 1 italiano su 4 è colpito da dolore cronico, ovvero quasi 13 milioni di persone. L’età media, 47,8 anni, è tra le più basse d’Europa, mentre la durata, 7,7 anni, tra le più alte. Il 43% di portatori di dolore accusa livelli di alta intensità. Tuttavia, vista la difficoltà della diagnosi, il reale numero dei pazienti è sottostimato: circa il 40% non viene trattato da uno specialista del dolore e non riceve adeguate cure, con importanti conseguenze sull’efficacia della terapia e sulla qualità della vita. Le possibilità di successo della terapia antalgica sono, infatti, maggiori quanto meno tempo si aspetta convivendo con il dolore cronico. E, considerando che si tratta di una patologia altamente invalidante di forte impatto sulle diverse dimensioni fisica, psicologica, lavorativa e relazionale, tutto ciò appare ancora più grave.
I tempi della diagnosi in Italia
Secondo quanto emerso da una Survey, condotta nel luglio 2022 da Boston Scientific in Germania, UK, Spagna e Italia su 2mila pazienti affetti da dolore cronico, il nostro Paese consegue la peggiore performance rispetto ai tempi della diagnosi: i pazienti italiani possono attendere fino a 10 anni prima di avere una diagnosi corretta e impostare terapie adeguate. Spesso inascoltati dagli stessi medici che tendono a sottovalutare il problema. In Italia non ha contattato uno specialista il 25,7% dei pazienti, il 15% ne ignorava l’esistenza, il 13% non ha trovato soluzioni idonee nel proprio territorio, mentre addirittura 1 paziente su 10 ha rinunciato per mancanza di coperture economiche. Il 17,7% dei pazienti italiani si è rivolto a quasi 10 medici prima di individuare lo specialista più idoneo e solo il 29,9% ha ricevuto la diagnosi direttamente dal medico di famiglia.
1 paziente su 10 non riceve alcun trattamento per il dolore cronico
Dalla survey emergono alcuni altri dati sorprendenti: 1 paziente italiano su 10 non riceve alcun trattamento per contrastare il dolore cronico, mentre 1 paziente su 4 conferma che la percezione del dolore è scesa notevolmente dopo i trattamenti. Ciò a conferma che una terapia adeguata e ‘su misura’ migliora concretamente la qualità della vita. Gli strumenti terapeutici in grado ad oggi di alleviare le sofferenze dei pazienti sono molteplici e prevedono l’utilizzo di farmaci antidolorifici, antinfiammatori, omeopatici, o di dispositivi quali i neurostimolatori midollari e i sistemi di ablazione con radiofrequenza.
La terapia mediante Neurostimolazione Spinale
Il trattamento del dolore cronico prevede infatti una strategia multidisciplinare che può includere all’inizio del percorso l’uso di farmaci analgesici per il trattamento sintomatico e alla fine del percorso terapie più avanzate come la Neurostimolazione Spinale (o SCS- Spinal Cord Stimulation). Le tecniche mininvasive sono spesso utilizzate quando le opzioni farmacologiche non offrono un’analgesia adeguata o inducono effetti collaterali insopportabili, possono però perfettamente integrarsi ed essere complementari ai farmaci. In particolare, la Neurostimolazione spinale è basata sulla stimolazione elettrica selettiva del midollo spinale tramite degli elettrocateteri, impiantati nello spazio epidurale e connessi ad un generatore di impulsi, al fine di modificare la percezione del dolore nelle zone algiche. Lo stimolo elettrico erogato si traduce nella percezione di una parestesia da parte del paziente (sensazione simile ad un formicolio) che si sostituisce alla sensazione dolorosa.
La terapia mediante SCS è completamente reversibile, non preclude ulteriori opzioni terapeutiche e viene utilizzata con successo fin dal 1967 per trattare pazienti con sindromi dolorose non trattabili, tra cui la sindrome da intervento chirurgico fallito alla schiena e la sindrome del dolore regionale complesso. Le linee guida del NICE raccomandano la SCS nei pazienti adulti affetti da dolore cronico di origine neuropatica, che soffrono di sindrome dolorosa cronica (con un punteggio di almeno 50/100 della scala VAS, Visual Analogue Scale) da almeno 6 mesi nonostante il trattamento medico convenzionale.
Si tratta di una procedura sicura, mininvasiva e reversibile che, a differenza degli oppioidi utilizzati in modo prolungato ad alti dosaggi, non è associata a disfunzioni del sistema immunitario e ormonale, depressione, aumento di peso, iperalgesia o potenziale sindrome da dipendenza. Le criticità per i pazienti affetti da dolore cronico risiedono anche nella mancata attuazione di una adeguata presa in carico.
La disparità territoriale nel riconoscimento normativo
Sebbene il decreto del novembre 2018 abbia concluso il percorso per il riconoscimento normativo della gestione del dolore con l’introduzione di un codice specifico per tracciare le attività ospedaliere, gli esperti notano una notevole disparità nell’attuazione di questi percorsi a livello nazionale e la mancanza di dati epidemiologici concreti ostacola la pianificazione sanitaria. Ne consegue che le risorse economiche dedicate alle terapie del dolore sono limitate e che chi si occupa a livello ospedaliero di terapia del dolore deve confrontarsi con il problema della sostenibilità economica di questa disciplina.
Proprio in merito all’aspetto economico, risultati interessanti sono emersi da un’inchiesta promossa dal gruppo Compain, progetto che coinvolge più di 200 terapisti del dolore e che mira a costruire – attraverso diversi gruppi di lavoro – una rete di conoscenze indipendente offrendo lavori scientifici, linee guida e webinar. Il confronto tra gli esperti è iniziato dalla valutazione della sostenibilità di quattro procedure tipiche di terapia del dolore: la denervazione delle faccette articolari, la radiofrequenza del nervo periferico, l’epiduroscopia e la neurostimolazione spinale. Per effettuare una rilevazione realistica si è deciso di condurre delle interviste in 17 centri di terapia del dolore.
Le differenze da regione a regione
Ciò che emerge è una notevole disomogeneità sul territorio nazionale di codifica delle procedure erogate in regime di ricovero ospedaliero, dovuta in parte alla mancanza di linee guida regionali e in parte alla difficoltà di inquadrare le attuali diagnosi e terapie correlate alla terapia del dolore nelle categorie dell’ICD-9 (il sistema internazionale di classificazione delle malattie, dei traumatismi e degli interventi chirurgici e delle procedure diagnostiche terapeutiche, attuale sistema di riferimento in Italia per codificare la scheda di dimissione ospedaliera). Tale problema di codifica – spiegano sempre gli esperti – genera una disomogeneità dei rimborsi nelle diverse regioni a cui segue una diversa sostenibilità della disciplina, un iniquo accesso alle cure con possibili e non auspicabili ripercussioni sull’appropriatezza terapeutica.
Dalla tabella sottostante si può vedere quali sono le differenze rilevate, con rimborsi per la stessa procedura che variano in maniera ingiustificata da regione a regione:
La IASP (International Association for the Study of Pain) ha suggerito da tempo una nuova classificazione delle malattie e degli interventi chirurgici (ICD-11), che vedrebbe il dolore cronico declinato in tutte le sue sfaccettature. Tuttavia – secondo il gruppo Compain – è difficile immaginare un’applicazione a breve termine dell’ICD-11 nei nostri sistemi di codifica.
Occorrerebbe dunque una presa di posizione condivisa, che consideri la diagnosi più appropriata per il tipo di patologia e il codice più appropriato per descrivere la complessità e i costi della procedura. A tutto ciò deve seguire un rimborso che garantisca la sostenibilità del trattamento e l’erogazione dello stesso trattamento per ogni malato in tutti i centri di terapia del dolore nelle diverse regioni. Per quel che riguarda la terapia del dolore, l’attuale sistema DRG contribuisce in larga misura a sottostimare i costi effettivi delle procedure cliniche in numerosi contesti, portando a tariffe che non rispecchiano accuratamente i costi medi sostenuti.
La carenza di formazione degli specialisti in terapia del dolore
Ulteriori problematiche attengono poi alla formazione dello specialista in terapia del dolore e alle possibilità di sbocco lavorativo. Dai dati raccolti dal gruppo di lavoro Compain costituito da 22 neospecialisti e specializzandi in Anestesia e terapia del dolore in 8 Atenei (Sardegna, Puglia, Campania, Lazio, Toscana, Emilia Romagna, Lombardia e Veneto) emerge una globale carenza della formazione specifica in terapia del dolore: l’85% degli intervistati ha dichiarato che questa non viene fornita durante il corso di laurea in medicina, il 39% ha dichiarato di non averla ricevuta nemmeno all’interno del proprio percorso di specializzazione, il 77% non è stato sottoposto a prove in itinere durante i 5 anni di specializzazione, il 62% non era obbligato a frequentare un centro di terapia del dolore durante il proprio percorso.
Ciò – osservano gli esperti – si riflette direttamente sulle difficoltà nell’inserimento lavorativo: il 77% degli specialisti percepisce la propria formazione come inadeguata, e di questi l’85% ritiene di avere carenze sulla teoria e il 75% sulle tecniche interventistiche. I fabbisogni formativi percepiti dalla maggior parte dei partecipanti alle survey riguardano gli ambiti della neurologia, fisiatria, medicina interna, psicologia, diagnostica muscolo scheletrica e neurofisiologia e tecniche di chirurgia percutanea del dolore.
La proposta di creare un percorso di ultra-specializzazione
Da qui l’esigenza prospettata dai terapisti del dolore di un adeguamento del percorso formativo agli standard minimi di competenze. Tra le varie opzioni vagliate, il gruppo ha raggiunto un consenso sull’opportunità di creare un percorso di ultra-specializzazione all’interno della Scuola di Anestesia, Rianimazione e Terapia del Dolore (in Italia articolata in 5 anni di corso).
La proposta è di dedicare i primi tre anni di formazione dello specializzando alla conoscenza di tutte le tre branche della Scuola di Specializzazione, con formazione teorica e prove in itinere anche in terapia del dolore. Dal quarto anno lo specializzando potrebbe scegliere il percorso di ultra specializzazione: nel caso della Terapia del Dolore gli ultimi due anni di corso sarebbero incentrati sullo studio esclusivo della materia e sulla frequenza presso centri hub per consolidare le competenze lavorative, dalla diagnosi fisiopatologica all’elaborazione di una strategia terapeutica omnicomprensiva che includa la gestione dei farmaci, dei percorsi riabilitativi fisiatrici, della sfera psicologica e comportamentale, fino alle tecniche interventistiche avanzate.
Per la messa in pratica di tale progetto – sottolineano i terapisti del dolore – è auspicabile un intervento più deciso degli organismi di controllo, quali l’Osservatorio nazionale delle Scuole di Specializzazione e la SIAARTI (Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva), per certificare il possesso dei requisiti del curriculum. In alternativa l’istituzione di un ‘albo professionale’, formato da specialisti del settore con comprovata competenza nel campo. “Un percorso formativo ristrutturato e che porti ad ottenere un curriculum specialistico dovrebbe essere considerato il prerequisito fondamentale per la pratica algologica. Si tratterebbe – conclude il gruppo Compain – dell’unica garanzia di un accesso alle cure secondo i più alti standard definiti dalla comunità scientifica”.
Urge dare concretezza alla legge 15 marzo 2010, n. 38
Da questa attenta analisi emergono quindi quelle che sono le problematiche che ancora oggi in Italia accompagnano la terapia del dolore: la legge n.38 del 15 marzo 2010 sanciva il diritto a non soffrire, riconoscendo una nuova disciplina, la terapia del dolore, distinta dalle cure palliative, che avrebbe dovuto gestire e prendere in carico in modo appropriato i malati con dolore cronico. Tuttavia, come dimostrato, molto resta ancora da fare e continuano ad esistere una serie di ostacoli: dalla diagnosi ritardata alla disparità nell’accesso alle cure, dalla mancanza di formazione adeguata dei medici alle difficoltà di sostenibilità economica.
Come affermato anche dall’on. Alessandro Colucci “Urge dare concretezza alla legge 15 marzo 2010, n. 38, che ben distingue tra cure palliative e terapia del dolore. Con la formazione poi di medici specializzati in quest’ultima riusciremo a migliorare la qualità della vita di chi soffre di dolori cronici”.
I più urgenti interventi riguardano l’adozione di una classificazione più dettagliata delle condizioni dolorose, la standardizzazione dei rimborsi per le procedure terapeutiche e una proposta di formazione specialistica specifica per i professionisti del dolore. Affrontare queste sfide richiederà non solo interventi normativi mirati ma anche un impegno congiunto delle istituzioni, della comunità scientifica e del settore sanitario per garantire un accesso equo e adeguato alle cure per tutti i pazienti affetti da dolore cronico.