di Pietro Romano
L’ Algeria e’ stata individuata dal Governo di Roma come valida alternativa alla Russia. Un ’alternativa a orologeria
La necessità di sostituire il gas che proviene dalla Russia sta spingendo il governo italiano a far diventare il nostro Paese sostanzialmente dipendente dall’Algeria. Con tutto quello che ne potrebbe comportare. L’Italia attualmente importa il 95,7 per cento del proprio fabbisogno totale di gas, una fonte il cui consumo è in costante crescita dal 1990, pari a 76,1 miliardi di metri cubi. La Russia è il suo principale fornitore con il 38,1 per cento delle necessità, seguita dall’Algeria con il 27,8 per cento, da Azerbaigian e Qatar con il 9,4 ciascuno e quindi da fornitori minori. Il presidente del Consiglio, Mario Draghi, ha di recente stipulato un accordo con il presidente algerino Abdelmadjid Tebboune per assicurarsi, nel giro di un anno e mezzo, una quantità annua di nove miliardi di metri cubi di gas, portando così la fornitura dell’ex colonia francese all’Italia a coprire quasi il 39 per cento del nostro fabbisogno. Una decisione salutata con soddisfazione da politica e informazione ma che nasconde molte insidie, e molto pericolose.
Paese “delicato”
L’Algeria è un Paese “delicato” di suo. Negli ultimi tempi, consapevole dell’importanza del suo gas dopo l’invasione russa dell’Ucraina, negli ultimi tempi ha preso ad alzare la voce. Ne sa qualcosa la Spagna. Madrid ha deciso di sostenere il Marocco nell’annosa questione dell’ex Sahara Spagnolo, che Rabat considera “suo” mentre l’Algeria appoggia il movimento indipendentista. Algeri ha minacciato Madrid di tagli alle forniture del gas, o perlomeno di un innalzamento dei prezzi e di un inasprimento delle condizioni, e ha anche allentato i controlli ai confini facendo penetrare in Marocco numerosi sub-sahariani che in realtà hanno come meta l’enclave spagnola in territorio africano di Ceuta e Melilla che è stata presa d’assalto di recente. Come se non bastasse l’Algeria ha di recente annunciato un aumento della materia prima non contrattato con i clienti.
Rischi da memoria corta
La consueta memoria corta nazionale non permette di ricordare che fino a dieci anni fa erano proprio nel Maghreb i fornitori di gas privilegiati dall’Italia: l’Algeria appunto e soprattutto la Libia. Ma i disastri provocati nel Nordafrica dall’interventismo di Barack Obama, presidente democratico Usa, e di alcuni reggicoda europei quali il presidente francese Nicholas Sarkozy (che cercava di ritagliarsi un ruolo privilegiato nell’area a discapito prima di tutto dell’Italia) hanno costretto Roma a orientare altrove le proprie scelte. La Libia era divenuta impraticabile e la stessa Algeria lo stava diventando. Nel gennaio 2013 Al Qaeda assaltò il giacimento di gas di Tigantourine, provocando numerosi morti e mettendo rapidamente fine a gran parte delle attività economiche straniere sul territorio algerino. I gasdotti a loro volta divennero obiettivo preferito degli islamisti ponendo spesso a rischio la continuità delle forniture. Nel gennaio del 2014 infine si verificò una interruzione, che ridusse dei quattro quinti le forniture algerine di gas all’Italia, al termine della quale si scoprì che la qualità della materia prima era peggiorata e che la fonte doveva addirittura essere miscelata con gas di buona qualità per essere utilizzata. Un disastro. Dal quale si uscì perché l’allora premier, e attuale segretario del Partito Democratico, Enrico Letta decise di rivolgersi alla Russia per ridimensionare il ruolo dei fornitori maghrebini, ridotti nel frattempo alla sola Algeria.
L’instabilità regna sovrana
Ma è cambiato qualcosa in questi otto anni nel Mghreb da permetterci la scelta attuale? Non certo in Libia dove l’instabilità continua a regnare sovrana. Ma a ben vedere nemmeno in Algeria. Questo Paese ridotto in povertà dal perpetuarsi al potere di una casta di vero o presunti combattenti nella guerra d’indipendenza algerina (e dei loro eredi) raccolti nel Fronte di liberazione nazionale rimane, proclami politici a parte, nella stessa situazione d’incertezza del 2014. E continua a mandare annualmente in Europa un esercito di giovani senza prospettive né qualificazione di nessun tipo, con grandi difficoltà di adattamento, spinti all’emigrazione dal catastrofico stato socio- economico del Paese. Un Paese che continua a rimanere dipendente sostanzialmente dalla sola risorsa energetica per sopravvivere e che sta registrando una crescita esponenziale del debito pubblico. Un Paese che registra continue manifestazioni di piazza contro il governo (soprattutto organizzate dal movimento Hirak), vede votare mediamente non oltre un terzo degli aventi diritto, rischia una guerra etnica nella regione abitata dalla minoranza cabila, dispone di confini meridionali molto porosi rispetto a terroristi e trafficanti di ogni genere, soprattutto è sull’orlo di un conflitto con il vicino Marocco per il futuro dell’ex Sahara Occidentale spagnolo. Come se non bastasse in questa fase, l’Algeria è strettamente legata alla Russia e in misura crescente alla Cina.
L’Italia importa il 95,7 per cento del proprio fabbisogno di gas, il cui consumo, in crescita dal ‘90, è pari a 76,1 miliardi di metri cubi
Il ruolo russo-cinese
L’Algeria ha dimostrato quanto sia legata all’asse russo- cinese anche durante la pandemia, usando perlopiù vaccini cinesi. In preda a una penuria di materie prime alimentari via via aggravatasi, inoltre, l’Algeria dipende per metà delle sue importazioni agro-alimentari da Mosca e questo potrebbe costringerla anche a una dolorosa scelta tra forniture di gas all’Italia e arrivo delle derrate dalla Russia, se la tensione tra Italia e Russia dovesse continuare a crescere. A che cosa poi potrebbero servire le nuove entrate assicurate al Paese dall’Italia per le forniture di gas? Probabilmente anche a comprare armamenti dalla Russia. L’Algeria è l’11esimo importatore mondiale di armamenti, con una quota su questo mercato globale pari al 2,6 per cento. E proprio la Russia è il suo quasi unico fornitore: gliene vende per l’81 per cento della spesa complessiva sostenuta per l’import. L’Algeria insomma dipende da Vladimir Putin tanto per mangiare quanto per difendersi, o attaccare.
Gasdotto a orologeria
Come se non bastasse il presidente Tebboune ha chiesto al premier Draghi di imbarcare l’Italia in una avventura costosa e dagli esiti tutt’altro che scontati: sostenere la realizzazione, oltre che di altre infrastrutture e di impianti eolici e fotovoltaici, del gasdotto Nigal. Vale a dire il gasdotto transahariano che dovrebbe collegare le coste della Nigeria (più precisamente la città portuale di Warry, dove nelle intenzioni dei promotori sarebbe convogliato gas africano, nigeriano ma non solo) attraversando il Niger e il deserto algerino per congiungersi ad Hassy ai gasdotti che arrivano in Spagna e, attraverso la Tunisia, in Italia. Questo progetto risale agli anni ottanta, poi è stato abbandonato e ripreso nel 2009, ma non è mai partito sia per un problema di costi sia, soprattutto, per un problema di sicurezza: la rete di 4128 chilometri attraversa territori alla mercé di contrabbandieri e guerriglieri di varie etnie, religioni, fazioni, territori che né i rispettivi governi né le missioni internazionali di Onu e Unione africana né la Francia sono riusciti a mettere in sicurezza. Nella collaborazione con l’Algeria, peraltro, l’Italia è già rimasta impelagata in una brutta storia di tangenti al centro della quale c’è la società energetica pubblica Sonatrach ma che alla azienda tricolore a controllo pubblico Saipem potrebbe costare una multa pari a 192 milioni di euro legata alle modalità di assegnazione di un contratto relativo a gas liquefatto. Rimane aperto, inoltre, il contenzioso tra Roma e Algeri legato alla sovranità marittima e all’uso spregiudicato degli strumenti di diritto internazionale del Paese maghrebino che si rifiuta di coinvolgere nella controversia gli organismi internazionali.
Questione cabila
Un problema crescente per l’Algeria è quello dell’indipendentismo cabilo. La Cabilia è una regione montuosa che ha inizio a un centinaio di chilometri a est di Algeri e si estende lungo la costa da Dellys a Bugia. E’ abitata da circa cinque milioni di persone che parlano prevalentemente il berbero. Si calcola che siano alcuni milioni i cabili che vivono all’estero. La Cabilia è stata una regione tradizionalmente insofferente alle dominazioni esterne fin dall’epoca romana e lo è ancora oggi rispetto al potere centrale. Senz’altro una delle regioni più colte e politicizzate dell’Africa settentrionale, è tenuta compressa dal potere centrale. I due partiti tradizionali cabili (Fronte delle forze socialiste e Raggruppamento per la cultura e la democrazia) ormai faticano a contenere il malcontento popolare e sempre più si rafforza il movimento indipendentista Mak. Messo al bando dal governo di Algeri, il Mak – di cui è fondatore e leader Ferhat Mehenni, che vive a Parigi – si sta radicando nelle aree meno urbanizzate della regione e nell’emigrazione. Uno dei principali pomi della discordia tra Parigi e Algeri è costituito proprio dalla libertà di cui il Mak gode in Francia. A rafforzare il movimento indipendentista il sostegno indiretto del Marocco di re Mohammed VI. L’escalation nei cattivi rapporti tra Algeria e Marocco ha ricevuto un colpo di acceleratore l’anno scorso quando l’ambasciatore di Rabat all’Onu, Omar Hilale, ha dichiarato al Palazzo di Vetro che il popolo della Cabilia merita più di ogni altro di godere appieno del diritto all’autodeterminazione. Rendendo così pan per focaccia ad Algeri che appoggia gli indipendentisti del Fronte Polisario nelle loro rivendicazioni sull’ex Sahara Occidentale spagnolo. Algeri ha risposto alla “provocazione” richiamando il proprio ambasciatore a Rabat, tornando a denunciare con più forza quella che chiama l’occupazione marocchina dell’ex Sahara Occidentale spagnolo e ribadendo le accuse al leader del Mak, Mehenni, di essere al soldo del Marocco.
Tamburi di guerra
Il principale problema politico dell’Algeria, però, è senz’altro il controverso rapporto con il vicino Marocco. Già all’indomani dell’indipendenza algerina i due Paesi si confrontarono sul terreno militare per problemi di confini. Una situazione che non si è mai normalizzata e che ha condotto l’Algeria a chiudere le frontiere nel 1994 e a non riaprirle più. Il punto di rottura è arrivato con il frettoloso abbandono spagnolo della sua colonia del Sahara Occidentale, ricca di fosfati, immediatamente dopo la caduta del regime di Francisco Franco. A Madrid si sostituì nell’ambito di poche settimane il Marocco con una rapida invasione che non tenne conto della volontà di indipendenza di una parte della popolazione locale – i Sahrawi, complessivamente meno di mezzo milione contro i 37 milioni di marocchini e i 44 milioni di algerini – che si riconosceva nel Fronte Polisario. Oggi, a distanza di quasi mezzo secolo da allora, gli indipendentisti controllano non più di un quinto dell’ex Sahara Occidentale spagnolo. I quattro quinti sono saldamente nelle mani di Rabat che ha investito in maniera massiccia nell’area, modernizzando dal capoluogo El-Ayun al principale porto, Dakhla, alla strada costiera che conduce in Marocco a nord e verso l’Africa al sud. Un’area dove si sono trasferiti anche molte decine di migliaia di marocchini.
L’Algeria fin dal ’75 si è opposta all’ipotesi che il Marocco occupasse l’ex colonia spagnola e negli anni ha rafforzato il suo ruolo di principale sponsor del Fronte Polisario trasformandosi di fatto anche in una sua retrovia. Il Marocco, da praticamente isolato che era, si è conquistato invece sostenitori importanti, a cominciare dagli Usa, che con Donald Trump presidente hanno riconosciuto l’annessione, benché poi alle Nazioni Unite i rappresentanti di Washington si siano schierati per “l’autodeterminazione del popolo del Sahara Occidentale”. Non a caso l’Onu continua a mantenere in loco una “missione di mantenimento della pace”, definita Minurso, in attesa del plebiscito. Anche l’Unione europea non riconosce l’autorità del Marocco sul Sahara Occidentale, tanto che di recente ha azzerato le trattative per un accordo sulla pesca con Rabat. Una scelta impegnativa. Il Marocco è diventato uno dei principali poli manifatturieri al servizio delle imprese europee per prodotti di media qualità e basso costo: è il caso dell’abbigliamento del colosso spagnolo Zara, che divide le sue produzioni tra il Marocco appunto e il Portogallo. Ed è di poche settimane fa la decisione della Spagna di riconoscere l’annessione. Una decisione che ha fatto scalpore, ma è spiegabile con la necessità sia di preservare i robusti rapporti economici intessuti tra i due Paesi sia di evitare l’invasione delle enclave di Ceuta e Melilla dalle migliaia di immigrati che premono ai confini. Algeri, però, sembra non voler sentire ragioni e sta minacciando di interrompere le forniture di gas a Madrid.
Un copione che potrebbe ripetersi in futuro con l’Italia, qualora Roma decidesse a esempio di seguire l’esempio spagnolo. Che cosa potrebbe accadere nel breve periodo tra Algeria e Marocco? La tensione è alle stelle benché Algeri per ora si stia limitando a continuare la sua strategia, proseguendo quella che Luis Martinez, direttore di ricerca all’università parigina di Sciences Po, chiama “la guerra per procura”. Una guerra attraverso gli indipendentisti che ha lo scopo di logorare il Marocco, costretto a tenere di stanza in permanenza nel Sahara Occidentale buona parte delle sue truppe scelte con un costo negli anni ammontato a oltre una decina di miliardi di dollari tolti allo sviluppo del regno e quindi finiti per rinfocolare il malcontento e per irrobustire i movimenti islamisti. Di certo la rottura dei rapporti diplomatici tra Algeria e Marocco, il 24 agosto dello scorso anno, rappresenta un altro gradino dell’escalation verso un rischioso conflitto al quale questa volta, a differenza che in passato l’Algeria si presenterebbe più forte. L’indice del “Global Fire Power”, aggiornata al 2021, indica infatti l’Algeria quale 27esima potenza militare al mondo e il Marocco quale 53esima. Perlomeno sulla carta.