di Pietro Romano
Alla liretta avevano promesso di sostituire una moneta forte, in grado di mantenere il rialzo dei prezzi entro limiti fisiologici, più o meno intorno al 2 per cento, e di permettere una crescita stabile e duratura. Purtroppo, a vent’anni e passa dall’introduzione dell’euro, le promesse di cui era garante la Banca centrale europea si sono dimostrate fallaci. Alla prova dei fatti, la moneta unica si è dimostrata debole, tanto da tornare più o meno ai minimi della sua storia rispetto al dollaro Usa, al franco svizzero e così via. E con una inflazione che viaggia al ritmo dell’8 per cento annuo. Alla prova dei fatti, insomma, le promesse dell’establishment si sono mostrate avventate e i sacrifici dei cittadini italiani (e la perdita di ricchezza, di beni pubblici e di sovranità nazionale) inutili. Certo, nessuno può provare che senza moneta unica la lira e l’Italia non avessero fatto di peggio, ma nel bene come nel male la storia non si fa con i se e i ma. Di fatto, i redditi degli italiani sono fermi da decenni.
Per l’attuale stato delle cose nemmeno si può addossare più di tanto la colpa alla pandemia o alla guerra, che pure sicuramente hanno fatto del loro. Ma la pandemia ha colpito tutto il mondo, non solo l’Europa né tampoco in maniera particolare da giustificare particolari conseguenze. Quanto alla guerra, anche sul fronte economico, non si comprende se l’abbiamo dichiarata o meno. Forse essere chiari con i cittadini e non considerarli sempre come dei “minus habens” è il minimo in una democrazia. Perché se siamo in guerra, sono giustificati i sacrifici ulteriori, se non lo siamo non si capisce perché ci si deve sottoporre a reiterati salassi.
Per tornare al problema dell’inflazione – devastante anche perché taglia in maniera indiscriminata il potere d’acquisto e gli investimenti – è legittimo chiedersi chi abbia sbagliato a sottovalutarla. Sicuramente hanno errato negli uffici della Bce a Francoforte ma di meglio non hanno fatto a Bruxelles, perché il perseguimento della stabilità dei prezzi è compito anche delle istituzioni europee.
Non è che i governi nazionali si siano comportati tanto meglio di costoro. Nemmeno a Berlino e a Parigi gli esecutivi sembrano più avvezzi alle grandi manovre economico-finanziarie. Preferiscono non disturbare i manovratori Ue e dedicarsi a operazioni di cabotaggio a fini elettorali, nella migliore delle ipotesi. E se non resta che piangere a Berlino e a Parigi figuriamoci a Roma, dove lo stiletto (in senso figurato) è sempre pronto nel guanto. Tra scissioni dell’atomo e anatemi mainstream le sofferenze politiche fanno il paio con quelle economiche, sperando che l’emergenza sociale rimanga sotto controllo. Tutte le forze sembrano dedicate ad arzigogolare soluzioni vieppiù complesse dei problemi. Quando non a tentare manovre di palazzo che il governo dei migliori dovrebbe come minimo aborrire. Vere e proprie trame, secondo indiscrezioni, per cercare di spostare le elezioni di qualche mese allo scopo di fare il pieno di nomine pubbliche.
O per mettere sotto il capace cappello della Banca d’Italia, direttamente o indirettamente, perfino la Consob. Pur di togliersi dai piedi – e mi si scusi la volgarità – un personaggio di spessore, esperienza e dalla schiena diritta come il professor Paolo Savona, il cui mandato da presidente dell’autorità sarebbe destinato a scade- re nel 2026.