Il virus continua a circolare, ma diminuiscono le ospedalizzazioni
di Katrin Bove
Il prof. Claudio Micheletto è laureato in Medicina e Chirurgia all’Università di Verona. Si è specializzato in malattie dell’Apparato Respiratorio all’Università di Modena. È Direttore UOC di Pneumologia Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona dal 2019 ed è Presidente nazionale eletto dell’Associazione Italiana Pneumologi Ospedalieri (AIPO).
Com’è apparso il Covid all’inizio del 2020?
Ho pensato al “Deserto dei Tartari”, di Dino Buzzati. I Tartari vengono attesi dal sottotenente Giovanni Drogo per l’intera sua vita. Noi li abbiamo attesi per due mesi. Avevamo cominciato a leggere le notizie sul Covid, ma soprattutto gli articoli scientifici, perché i colleghi cinesi già a gennaio 2020 avevano pubblicato molte cose, descrivendo le caratteristiche della malattia. Pensavamo che l’attesa fosse lunga, invece all’inizio ci ha spiazzato, perché noi abbiamo aperto il Reparto nel mese di marzo, quando siamo stati investiti e sorpresi da un’onda crescente, che ci ha trovati totalmente impreparati: il Reparto stracolmo, l’enorme afflusso in Pronto Soccorso, l’aumento vertiginoso dei casi giornalieri. Dal mese di aprile abbiamo incominciato a constatare il calo, per cui dal punto di vista dell’impegno, sia psicologico che fisico, la prima “ondata” è durata solo tre mesi.
Che posizione ha rispetto alle cure domiciliari ai primi sintomi?
È un compito molto complicato per il medico di Medicina Generale, perché dire che all’inizio della malattia si possa fare una “vigile attesa” non è sbagliato, perché tempestare il paziente di cortisone e antibiotico il primo giorno che ha la febbre, non è corretto. Questi farmaci possono essere utili nel momento in cui servono. È difficile intercettare il momento e dobbiamo essere precisi sul fatto che curare una malattia vuol dire andare ad interferire con l’eziopatogenesi. La vera cura è arrivata da maggio del 2020, con gli anticorpi monoclonali, che vengono usati per prevenire l’ospedalizzazione.
In ospedale, invece, com’è stata affrontata la malattia?
Il mio paziente “numero uno” ha fatto, dal primo momento, l’eparina a basso peso molecolare. Quindi, i famosi anti aggreganti sono stati dati a tutti, perché nel lavoro pubblicato su “Lancet” del gennaio 2020, i colleghi cinesi avevano già scritto che i pazienti Covid avevano i diddimeri alti. È falso dire che all’inizio i pazienti sono stati curati male ed è una nozione vecchissima quella in base alla quale durante le polmoniti gravi aumenta la coagulazione. Il principio di trattare questi pazienti per evitare problemi trombotici era chiaro dall’inizio. I penumologi sanno che nella polmonite grave il cortisone serve, per cui eparina e cortisone sono stati dati a tutti i pazienti dal primo giorno e questo protocollo da allora non è cambiato. L’insufficienza respiratoria è stata trattata con l’ossigeno e la ventilazione meccanica non invasiva. L’aspetto innovativo, nel tempo, è stato cercare un antivirale, che non poteva esserci a marzo 2020 e non c’è neanche ora, se vogliamo. Sono stati riciclati alcuni farmaci che erano stati usati nel passato per “ebola” e per altre epidemie. L’unico antivirale che ha avuto validazione scientifica e che tutt’oggi usiamo è il “Rendesivir”. Sempre nei primi lavori dei colleghi cinesi era descritta la “tempesta citochinina”: si è tentato, con i farmaci esistenti – in particolare quelli che si usano in reumatologia – di bloccarla.
I vaccini come hanno cambiato la situazione?
Con i vaccini, in termini percentuali, abbiamo ottenuto dei buoni risultati. Sapevamo che non potevano contenere la diffusione della malattia e con l’attuale variante la nota dolente è stata quella dei grandi numeri di positività. I vaccini hanno ridotto notevolmente la percentuale degli ospedalizzati. Da ottobre 2021, entrano in ospedale un 70% di non vaccinati o comunque persone che non hanno un ciclo vaccinale completo. L’insuccesso del vaccino è legato all’età e alle comorbidità, in particolare a quelle ematologiche e a tutte quelle che vanno a ridurre le difese immunitarie. Il vaccino protegge e riduce le ospedalizzazioni. Per quanto riguarda i ricoverati, la percentuale di coloro che finiscono in rianimazione, è molto più bassa rispetto al passato. Questo vuol dire che in chi si è infettato nonostante il vaccino, la malattia ha avuto un decorso diverso.
Lei ha trattato anche bambini e adolescenti?
Non personalmente. I numeri in età pediatrica relativamente all’ospedalizzazione sono stati sempre molto bassi. Forse, sono leggermente aumentati in percentuale nel corso di quest’ondata. Nei bambini, come la malattia fa poco, così il numero di segnalazioni per eventi avversi a causa del vaccino, mi sembra sia molto basso.
A suo avviso, i vaccini devono essere reiterati nel tempo più volte?
Tutti ci aspettiamo vaccini che durino più a lungo, perché c’è un problema organizzativo molto importante. Nella nostra Azienda Universitaria abbiamo un laboratorio di alto livello che da due anni sostanzialmente fa tamponi. Non è pensabile che un tecnico vada a lavorare 10- 12 ore al giorno per fare solo tamponi. Anche il sistema vaccinale prevede la presenza di molti medici, in parte volontari, in parte ripresi da Medicina Generale o anche dagli Ospedali. Non possiamo andare avanti per anni con una parte del personale sanitario che faccia tamponi o vaccini. Ci auguriamo, quindi, di arrivare al vaccino tipo influenzale, una volta all’anno. Speriamo che la terza dose faccia da rinforzo e duri di più. Comunque, è stato già un miracolo avere un vaccino, perché per tante malattie infettive si è arrivati ad un vaccino in tempi molto lunghi.
Il Covid, ha avuto un impatto rispetto alla cura di pazienti colpiti da altre malattie?
Questa è una nota dolente. Il mio Reparto è mediamente di 20 posti letto. È arrivato, nella prima ondata, a 44, nella seconda a 80 letti, oggi ne conta 60. Con i miei medici non posso gestire una situazione di questo genere. Quindi arrivano medici di altre branche specialistiche, ma soprattutto devo chiudere una pneumologia cosiddetta “pulita”. Il mio cruccio non è quello di dire “questo è un lavoro pesante; siamo vestiti, bardati, sudiamo, la sofferenza …”. Questo è il nostro lavoro. Il mio grande rimpianto per questi due anni è di aver lasciato indietro i pazienti pneumologici: vengono poco, perché tutti hanno paura; quelli che vengono finiscono in altri reparti, però perdono una gestione specialistica. È evidente che con il Covid si dovrà convivere e proprio per questo bisognerebbe trovare dal punto di vista organizzativo il modo per far sì che tutti i Reparti possano avere una vita normale, indipendentemente da un ritorno epidemico.
Che esperienza ha avuto in questi due anni del cosiddetto “long Covid”?
Abbiamo tentato di gestire un ambulatorio del “post Covid” e abbiamo fatto un’esperienza molto importante. Purtroppo, è una brutta malattia anche da questo punto di vista. Perché non è solamente un problema di sequele polmonari fibrotiche, il problema grosso è un “long Covid” multisistemico, con problematiche muscolari, neurologici, cardiologici e psicologici. L’esperienza di una rianimazione, di una semi intensiva e di un lungo ricovero, comporta l’ansia di superare quest’esperienza, da numerosi problemi. Questo lo dico dopo aver osservato migliaia di persone nel post ricovero.