La sfida che le imprese stanno affrontando è spesso ostacolata, paradossalmente, da resistenze e vincoli interni alla struttura. Ecco in quale modo, e con quali partner, la strategia è destinata a diventare vincente
di Daniele Meini
In questi ultimi anni l’innovazione tecnologica ha cambiato profondamente il modello di business di molti settori e comparti aziendali. Strumenti e processi sono diventati oggetto di trasformazioni digitali, le quali hanno reso più intuitiva e pervasiva la fruizione di servizi, o il funzionamento interno dei processi aziendali.
In generale la sfida dell’innovazione è diventata per tutte le aziende medio-grandi uno dei principali fattori critici di successo. Negli ultimi tempi, le grandi organizzazioni si sono confrontate per individuare una chiave di lettura più efficiente per rendere innovativi i processi aziendali; che fosse al tempo stesso economicamente sostenibile e finanziariamente disciplinata.
La sfida: far fronte alle tecnologie disruptive
Studi accademici dimostrano che le aziende di successo riescono a resistere alle ondate tecnologiche di sostegno; tuttavia non sono in grado di far fronte alle tecnologie disruptiv. Vale a dire quelle che trasformano i modelli di business o in modo profondo i processi aziendali.
La sfida che le imprese stanno affrontando trova molto spesso i principali ostacoli proprio all’interno delle strutture aziendali. Basti pensare alle resistenze organizzative, ai vincoli di bilancio e di budget, alla necessità di conseguire obiettivi di breve termine a discapito di quelli a lungo, alla bassa propensione al rischio di buona parte del management.
L’asimmetria comunicativa e di aspettative tra le start up e le grandi aziende
Per rispondere a questa complessità strategico-operativa, e mantenere un forte presidio sui temi dell’innovazione, le grandi imprese si sono progressivamente avvicinate alle start up con l’obiettivo di coglierne i tratti distintivi: idee, velocità, flessibilità. Il modello però non ha sempre funzionato bene. Esiste una evidente asimmetria comunicativa e di aspettative tra le start up e le grandi aziende. Basti pensare ai tempi di risposta, alle standardizzazioni, alla possibilità di rendere soluzioni velocemente “scalabili”. Questa asimmetria si traduce per esempio in un numero molto ridotto di exit.
In Italia, questo fenomeno è piuttosto evidente; seppur sul piano tecnico, normativo e fiscale la situazione italiana sia tra le più favorevoli per le start up e i venture. Infatti, le grandi operazioni di acquisto di scale up da parte di grandi gruppi si contano sulla punta di una mano.
E’ necessario seguire strade diverse. Ma quali?
Una delle soluzioni più interessanti che all’estero ha trovato larga diffusione e che in qualche modo permetterebbe di superare alcuni dei problemi italiani può essere quella di sviluppare in primis degli Acceleratori Verticali (corporate vertical accelerator CVA) in azienda e poi una volta consolidati strutturare dei veri e propri Corporate Venture Capital (CVC). Gli Acceleratori Verticali rappresentano divisioni aziendali che seguono piani di accelerazione in start up private o scale up con l’intento di indirizzare i fabbisogni di innovazione interna in chiave strategico-industriale e/o finanziario.
Volendo capire bene su cosa deve lavorare un CVA è necessario partire dall’innovation plan che qualsiasi azienda (anche quelle medie) possiede o dovrebbe possedere. L’innovation plan copre le progettualità aziendale in chiave di innovazione incrementale o radicale. In questo secondo caso una delle vie più interessanti per cercare delle soluzioni innovative è che l’azienda può rivolgersi a start up o scale up che possono supportarla tramite prodotti/servizi in portafoglio o proof of concept calati sulle specifiche esigenze della corporate. Per far questo si procede con l’acquisizione di quote di minoranza della start up e si lavora a stretto contatto dei founders attivando un piano di accelerazione condiviso su mezzi ed obiettivi.
I vantaggi di un VCA si possono sintetizzare in:
- forte legame con la Corporate e al suo brand
- integrazione operativa con le business lines anche con progettualità condivise
- il corporate brand attira le start up e i migliori imprenditori
- più facile networking intero e quindi velocità nella gestione delle progettualità condivise
- contaminazione tra il personale della start up e quello della Corporate
Il funzionamento del CVA richiede una forte sponsorship da parte del top management e la capacità di focalizzare in modo chiaro gli obiettivi. Nella fase di progettazione delle attività di accelerazione è indispensabile tradurre le esigenze dell’innovation plan/gap in call che attirino start up ed idee imprenditoriali coerenti.
La creazione del Corporate Accelarator
Il Corporate Accelerator di Coca Cola ha identificato 5 priorità strategiche: consumer engagement, consumer retail, supply chain, marketing innovation e health and wellness. Una volta definiti gli obiettivi e quindi l’organizzazione interna del CVA e la sua struttura di relazioni con la Corporate, la fase successiva prevede la selezione rigorosa e condivisa delle start up e la definizione di un modello di misurazione della traction operativa del progetto. Nella creazione del Corporate Accelarator il management infine decidere il corretto posizionamento organizzativo. La scelta può essere tra la creazione di una business unit ovvero la creazione di una legal entity separata. Il CVA può evolversi e assumere la veste di un Corporate Venture Capital.
Tra le grandi Corporate americane si tratta di una prassi diffusa (Intel, Europecar o BMW, Intel, Google, Novartis, Verizon). Le due principali regole da seguire sono 1) la capacità del CVC di generare ritorni per la capogruppo – sia strategici che finanziari – e 2) avventurarsi in mercati altamente competitivi anzi spesso cercando quelle che potrebbero essere le future evoluzioni dei business tradizionali in cui l’azienda è impegnata. Si pensi al progetto sulla sharing mobility Drive Now di BMW finanziato dal CVC interno della famiglia Quandt. Oppure Verizon che finanzia start up legate al prossimo ingresso della tecnologia delle telecomunicazioni 5G.
Il CVC rispetto ai classici fondi di venture capital
Una particolarità del CVC rispetto ai classici fondi di venture capital risiede però nell’esperienza e nelle competenze industriale che la Corporate apporta alla progettualità della società nella quale ha investito. Aspetti industriali ma anche la possibilità di realizzare esperimenti o progetti sul campo a quattro mani con il supporto degli executive della Corporate.
Interessi ed obiettivi allineati e quindi massimizzazione della resa. Report Cb Insights riporta che nel 2020, i mega round (deal del valore di oltre 100 milioni di dollari) che hanno visto la partecipazione dei CVC hanno raggiunto il massimo storico di 182 (+48% rispetto all’anno precedente). Google Venturessi si conferma ancora una volta come il CVC più attivo (con investimenti in 81 società nel 2020) seguito da Salesforce Ventures (70 società). Dal punto di vista settoriale, i CVC si sono concentrati sul settore digitalhealth, con 310 deal per un totale di 8,8 miliardi (+68% a/a). Al contrario, gli investimenti in fintech sono calati sia per numero di deal (-21%, da 525 nel 2019 a 416 nel 2020) che per ammontare investito (sceso da 12,6 miliardi lo scorso anno a 10,8 miliardi).