senza coniugare teoria e pratica
di Pietro Romano
A settembre l’inflazione è schizzata al +2,6 per cento. Un record da oltre otto anni a questa parte. Finalmente si avvera quanto l’attuale premier Mario Draghi da anni andava predicando: per avviare la ripresa serve inflazione, non stagnazione. Ma ora lui stesso, nel nuovo ruolo, appare molto più cauto. Se questo tasso inflattivo fosse duraturo, strutturale e non congiunturale – ha spiegato Draghi – andrebbe incrementato il tasso di crescita della produttività. E non di poco, aggiungiamo noi. Perché alle attuali necessità andrebbero sommate le carenze sul fonte della produttività che l’Italia va accumulando ancora da prima che nascesse la moneta unica. Ma non sembra, per ora, che ad assolvere questo imperativo categorico sia la politica economica italiana. Nonostante la “messa cantata” dell’informazione mainstream su un presunto, novello, boom economico.Come ha osservato l’economista Gustavo Piga, se è vero che anche la crescita economica italiana per il 2021 sia stata rivista al rialzo (+6 per cento anziché +4,5 per cento), è altrettanto vero che le recenti stime dell’Ocse rilevano come, a fronte di un incremento mondiale del +6,8 per cento rispetto al 2019, la crescita italiana è destinata a fermarsi al +1,1 per cento a fronte di un aumento medio nell’Eurozona pari al +3,4 per cento. E purtroppo è naufragata nel frattempo la speranza che la Nota aggiuntiva al documento di politica economica e fiscale (Nadef) si proponesse di avviare un periodo di politiche, fiscali in particolare, più espansive. Viceversa, è stata avviata in anticipo rispetto al previsto una drastica politica di austerità, complici probabilmente i “suggerimenti” arrivati dall’Unione europea. Rispetto alla quale nulla sembra potere nemmeno l’ascendente di Draghi sulle istituzioni internazionali. Il combinato disposto di inflazione in crescita (per larga parte importata, a cominciare dalla fiammata dei prezzi delle materie prime e in particolare dei corsi energetici) e politiche di austerità molto rigorose non depone per nulla di buono sul nostro futuro. Tanto che persino provvedimenti riformatori attesi da lungo tempo rischiano di trasformarsi in boomerang. Un esempio per tutti? La riforma fiscale. Sotto l’incalzare dell’inflazione, infatti, invece di pagare di meno rischiamo di pagare di più. O perlomeno di non godere di benefici dall’auspicato taglio delle imposte. L’aliquota effettiva sui redditi tende a salire con l’inflazione. Anche – e non è così, allo stato – se il peso dell’inflazione dovesse essere attutito integralmente. La tassazione tende a salire più del reddito. Da un canto il potere di acquisto nella migliore delle ipotesi – al momento del tutto inattendibile – di recupero totale dell’inflazione rimarrebbe intatto, dall’altro la crescita dell’aliquota a fronte dell’incremento nominale del reddito lo ridurrebbe a tutti i livelli, a cominciare da quanti rientrano nella cosiddetta “no tax area” che oggi arriva fino a 8.174 euro di reddito annuo e che garantisce anche una serie di agevolazioni, destinate al dimenticatoio.