A CENTO ANNI DALLA NASCITA LE SUE OPERE RIMANGONO UN TESTAMENTO LETTERARIO E GIORNALISTICO INEGUAGLIATO
di Domenico Della Monica
Piccolo grande Mimì. Piccolo fino all’ultima ora della sua vita, come un bambino, come una creatura. Grande, fin dai suoi primi passi di scrittore, come possono esserlo solo gli scrittori posseduti da un destino. Che meraviglioso bambino è sempre stato Mimì: umile e fiero, mite e rapace, candido e malizioso. E che strepitoso scrittore, pieno di estro e di intelligenza, di immaginazione e di coscienza, di senso del favoloso e di senso della realtà. Sia nell’uomo che nello scrittore c’era qualcosa di antico. Anzi era antico, in tutto. Antico come l’infanzia quando era davvero infanzia, come la povertà era vera povertà, come la fame quando era autentica fame, come i sogni dei bambini, dei poveri e degli affamati quando quei sogni non erano ancora di plastica. Antiche non erano solo le sue manifeste virtù: l’assoluta probità dell’uomo, l’assoluta serietà dello scrittore. Antichi erano anche i suoi vizi immaginari: la sua sfacciata, ingenua vanità, il suo gusto fanciullesco per l’osceno, la sua teatrale e dispotica loquacità, il suo presunto egotismo: tutto vezzi e capricci innocenti che lui cocciutamente ostentava per meglio mascherare e contraddire la sua brama di tenerezza, la sua capacità di compassione, la sua natura misericordiosa.
Ma antico, soprattutto, era quel sentimento ‘creaturale’ della vita che gli ispirò i suoi libri migliori. Molti di questi libri sono tra i più belli del nostro secondo Novecento, e i primi tre (i celebri racconti di “Spaccanapoli”, “Gesù fate luce” e “Quel che vide Cummeo”) gli assicurarono subito, negli anni Cinquanta, un ingresso clamoroso sulla scena letteraria. Splendido è anche “Ritratto di maggio”, una limpida rievocazione, tragica e comica insieme, del primo anno di scuola di un ragazzino del sud fra molti compagni poveri e qualche compagno benestante. Meno rumore, invece, fece il suo libro forse più ambizioso ( e che io amo di più): il cupo, dolente, luttuoso romanzo “Una vampata di rossore”, in cui racconta l’agonia di una donna del sud attraverso i pensieri di coloro – il marito e i figli – che lei aveva mantenuto per tutta la vita con la sua attività di gagliarda e ricercata levatrice. Ma un capolavoro è anche il suo ultimo libro, quel romanzo insieme atroce e delicato che è “Ninfa plebea”, cui giustamente toccò il Premio Strega (un vero plebiscito) nel 1992, due anni prima della sua morte. Romanzo ossessionato dal sesso, dallo sporco, dal fetido, ambientato ancora una volta a Nofi (Nocera Inferiore, patria ideale di Rea).
Ma Nofi è anche il regno del basilico e della menta, dei pomodori, dei carciofi e delle melanzane: frutti di quella fertile terra. “Ninfa plebea” è un romanzo frenetico, radioso e buio insieme, dove il sesso è sfizio, gioia e condanna. Furono proprio il premio Strega, vinto alla grande, e il film diretto da Lina Wertmuller a rendere popolare Rea. Noto lo era già da tempo, almeno tra coloro che comprano e leggono buoni libri. Quell’estate don Mimì passò da un programma televisivo e radiofonico all’altro, da un’intervista all’altra, e l’Italia provò simpatia per quello scrittore così napoletano e così felice di esserlo. Gran conversatore e affabulatore, il viso tondo di chi ama la buona tavola, pettinato come un monaco medievale, l’eleganza un po’ spagnolesca, barocca, il gesticolare eloquente, Mimì Rea aveva tutto per sedurre. Non rispondeva quasi mai alle domande dei giornalisti. Ne faceva un pretesto per raccontare, con quel modo, con quell’accento che era una miscela di malizia e di candore, di umorismo, narcisismo e eccentricità. Era nato l’8 settembre 1921, festa di Piedigrotta, ai Gradoni di Chiaia. Ma non fu Napoli il luogo della sua infanzia e adolescenza bensì Nocera Inferiore, la Nofi di “Ninfa plebea” e di tanti suoi racconti: il padre, ex carabiniere, vi si era trasferito per meglio esercitare la sua attività di sensale di pomodori.
A Nocera, Rea frequentò le elementari ma quando fu il momento di passare alle medie, visto l’ammontare delle tasse scolastiche e il costo dei libri di testo, il padre gli disse: «Mo’ non teniamo soldi, magari più avanti». Così Mimì si fece autodidatta, studiando cosa, come e quando voleva lui. Il resto del tempo lo trascorreva in strada, a guardare la gente e a parlare con tutti. Era libero e felice, un guaglione diventato presto un acrobata del sesso: lui era in giro quando gran parte dei maschi stavano dietro un banco o uno sportello o una scrivania. Una sera di tanti anni fa, al Circolo della stampa di Milano, mi raccontò di una certa signora, trentenne bellissima («Nei ricordi di gioventù, tutte le donne sono bellissime») sposata con un ufficiale dell’esercito (Nocera allora era sede di una storica e importante caserma). La signora abitava nell’appartamento del piano di sopra. E si annoiava mentre il marito era alle manovre. Propose alla madre di Mimì, Lucia, di impartire al ragazzo lezioni di francese. «Gratis?», chiese Lucia. «Gratis», rispose la donna. Non solo era bella, ricordava don Mimì, ma aveva la casa piena di caramelle, panzarotti, sfogliatelle. Dopo tre, quattro lezioni dalla gonna e camicetta passò alla vestaglia. E dalla vestaglia al letto. Focosissima e insaziabile introdusse l’adolescente Mimì ai giochi torridi, proibiti. Da allora ogni altra donna, al suo confronto, gli sembrò per anni e anni «una pensionata delle orsoline». Il padre lo avrebbe voluto carabiniere ma Mimì non ne volle sapere e trovò un lavoro alle Manifatture cotoniere meridionali di Fratte. Intanto covava e alimentava la sua vera passione, la letteratura.
Voleva scrivere, voleva raccontare: si sentiva nato per quello. Negli anni fra il 1947 e il ’49, come già detto, pubblicò “Una vampata di rossore”, “Le formicole rosse”, “Gesù fate luce”. La critica si divide tra coloro che non approvavano un certo linguaggio popolare, talvolta triviale e altri, fra i quali Francesco Flora, che vi vedevano «fuoco, dinamismo, sangue, estro». Purtroppo per Rea, “il tribunale della santa inquisizione” rappresentato dall’intellighenzia comunista gli negò i favori. In verità Rea era stato comunista. Ma dopo aver fatto un viaggio a Praga (era il 1954) stracciò la tessera. Aveva visto con i propri occhi quello che in Italia veniva decantato come “il paradiso dei lavoratori” accorgendosi, molto prima di altri che rifiutavano la realtà, della grande menzogna. Quando il Pci metteva sulla lista nera uno scrittore, c’era poco da stare allegri. Ma Rea non perse l’allegria. Era a Milano, in quegli anni, ospite di Giacomo Manzù. Frequentava il quartiere Brera tirando tardi con Carlo Bo, Riccardo Bacchelli, Salvatore Quasimodo, Gadda, Montale, Alfonso Gatto, Gaetano Afeltra. L’aiutavano tutti, quell’estroverso Mimì che alluvionava con mirabolanti avventure di sesso, con ritratti di personaggi partenopei, con storie della sonnolenta provincia meridionale. Alberto Mondadori lo conobbe e volle puntare su di lui. Gli offrì quanto bastava alla sopravvivenza e gli intimò di scrivere un altro libro di racconti. E fu “Spaccanapoli”, il primo vero successo di Rea. Il quale, forse, non si sarebbe staccato più da Milano se una donna, con la quale conviveva, non si fosse “messa in capo” di sposarlo. Se la vide brutta, Mimì. Fatto sta che una mattina, invece di andare in edicola, salì sul primo treno per Napoli da dove non si sarebbe mai più mosso. Nemmeno per le vacanze. Era orgoglioso di poter dire: «Non ho mai fatto un giorno di villeggiatura, perché in villeggiatura non si fa niente. E io non sono capace di far niente. Io devo scrivere».
A chi gli obiettava che si poteva scrivere ovunque, Rea rispondeva che no, lui aveva bisogno della sua tana, delle sue carte, dei suoi libri, della sua poltrona, dei suoi spazi. A Napoli sbarcò il lunario facendo il giornalista. Scriveva articoli, corteggiava le donne, scorrazzava su una fuoriserie per via Caracciolo. Leggeva molto, ma mai un autore nato dopo il Settecento. La sera, ogni sera, si frammischiava alla sua plebe, nei vicoli e nei bassi, nel ventre della città. Quella era la Napoli che amava e che è riuscito a descrivere con tanta efficacia. Non amava «i quartieri alti dove la borghesia napoletana vive come gli inglesi nelle colonie», senza nessun contatto con il popolo. «Per loro Napoli non esiste», diceva. Si svegliava prestissimo, alle sei. E si metteva alla scrivania. Fino a qualche anno prima della morte, gli tenevano compagnia la bottiglia di whisky e i pacchetti di sigarette. Scriveva fino a tarda mattinata poi andava dal sarto o da “Marinella” a comperare cravatte. Il pomeriggio vagabondava nei quartieri spagnoli sedendosi ai caffè, sostando davanti agli ambulanti, scambiando parole con i venditori di sigarette di contrabbando, «dai quali – diceva – c’è molto da imparare». La Napoli plebea, la Napoli dell’arrangiamento, la Napoli arguta che non si rassegna, la Napoli pullulante di Miluzze, la protagonista del suo ultimo libro, pronte a saltare da un’alcova a un pagliaio. Questo era il mondo di Mimì. Lo aveva descritto in centinaia di pagine e credeva di non poterne cavare più niente. Poi, un’estate, il 16 luglio del 1991, con 35 milioni di italiani in vacanza, nella solitudine della sua casa di Posillipo, Rea scribacchiava su un foglio: «Il carro si fermò davanti al basso…». Era come se nella camera buia della sua testa si fosse accesa una luce, racconterà dopo la vittoria del premio Strega. «Mi fece ritrovare di colpo la mia infanzia, l’adolescenza, la giovinezza…». E quella frase scarabocchiata non rimase sospesa ma diventò l’inizio di “Ninfa plebea”, testamento di Mimì, della “cchiù bella penna e’ Napule”.