di Pietro Romano
Da metà febbraio al momento in cui scrivo i mercati finanziari non stanno offrendo molte soddisfazioni all’Italia. I tassi dei titoli pubblici decennali (insomma, il loro rendimento a dieci anni) sono quasi triplicati. E il differenziale (spread) tra il rendimento dei titoli pubblici italiani e quello dei titoli pubblici tedeschi è cresciuto di oltre il 41 per cento passando da 91 a 122 punti. Un risultato che non è certamente colpa di Mario Draghi ma rispetto al quale sembra potere poco o punto anche il presidente del Consiglio, salutato appunto dai mercati finanziari con rendimenti e spread ridotti ai minimi.Che cosa sta succedendo, allora? L’Italia è tornata a essere vista come il ventre molle di una Europa unita tutt’altro che in salute. Si teme, prima di tutto, una riduzione degli acquisti di titoli pubblici europei da parte della Banca centrale di Francoforte. Una riduzione che spingerebbe l’Italia a dover ricorrere ai mercati non protetti da questo paracadute per finanziare il proprio debito con un probabilissimo incremento degli interessi da pagare. Incremento a forte rischio di un risveglio dell’inflazione, soprattutto sotto i colpi del boom dei prezzi delle materie prime. I timori internazionali sono appuntati sull’Italia anche perché la speranza quasi messianica che la classe dirigente del nostro Paese sta riponendo nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) potrebbe essere malriposta. Al momento, difatti, il Piano sembra più un incentivo all’indebitamento che alla crescita. E per un Paese come il nostro che non si è mai ripreso dalla crisi del 2008 la notizia è tutt’altro che buona.A differenza di quanti paragonano improvvidamente il Pnrr al Piano Marshall, difatti, l’attuale Piano europeo si caratterizza per avere un impatto molto limitato sullo sviluppo, sul prodotto interno lordo, sull’economia reale. Uno scarso impatto che rimane più o meno costante nonostante la firma sotto il Piano sia ora quella del ben noto a livello internazionale Draghi e non più quella di un avvocato di medio calibro, con tutto il rispetto, quale Giuseppe Conte.Nel complesso l’effetto del Pnrr sull’incremento del Pil è previsto quest’anno nell’ordine dello 0,4 per cento, l’anno prossimo dello 0,5 per cento, nel 2023 dello 0,1 per cento. A fronte di molti miliardi di spesa (parzialmente da rimborsare) del Pnrr. Che cosa determina questo risultato? Semplice. I beni e i servizi da acquistare per soddisfare le esigenze messe a rimborso dal Pnrr in realtà, non avendo l’Italia il tempo di modificare il suo sistema formativo e produttivo per tenere dietro ai rigidi limiti esecutivi temporali previsti, finiranno perlopiù per essere comprati all’estero. Insomma, faranno crescere le importazioni, e a un livello ben superiore a quello dell’andamento delle esportazioni. La spesa orientata a favore delle costruzioni, inoltre, non creerà le condizioni di una crescita del valore aggiunto e (in parte) della competitività. L’arco di vigenza del Pnrr è troppo breve per modificare tanto profondamente il sistema Paese. E non è un caso che l’Italia sia tra i pochissimi Paesi ad aver attinto ai prestiti messi a disposizione da Bruxelles. Quanto alle risorse a fondo perduto, se direttamente ne avremo un beneficio, fin quando l’Italia rimarrà un contribuente netto dell’Unione rischierà di dover rifondere più di quanto ha ottenuto, direttamente o attraverso l’emissione di titoli pubblici europei.