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LA DIFESA VA ALL’ATTACCO

L’ELEVATO EFFETTO MOLTIPLICATORE DEGLI INVESTIMENTI NEL SETTORE PUO’ CONTRIBUIRE A USCIRE DALLA CRISI PIU’ RAPIDAMENTE DI OGNI ALTRO

di Pietro Romano

In un periodo di crisi economica acuta, l’effetto anticiclico degli investimenti nella difesa può permettere di assorbire lo choc della domanda subita dalle attività civili. E mantenere in piedi le strutture della ricerca, dell’innovazione e dello sviluppo che, per le ricadute duali della loro azione, permettono di favorire anche i comparti non strettamente legati alla sicurezza. Anzi, l’elevato effetto moltiplicatore degli investimenti nella difesa, tra i più alti in assoluto anche fra i settori ad alta tecnologia, è in grado di contribuire a uscire dalla crisi più rapidamente di ogni altro. O quasi. A rilevarlo il gruppo di riflessione “Mars”, costituito da una trentina di personalità francesi – di estrazione culturale e orientamento politico diversi, provenienti dal settore pubblico e privato, dalle forze armate come dal mondo della ricerca – le quali, coperte dall’anonimato, producono analisi strategiche relative all’industria della difesa e della sicurezza e alle scelte tecnologiche e industriali alla base della sovranità transalpina.

Prosperità & indipendenza

Per questo pensatoio – “che sussurra direttamente alle orecchie dei decisori francesi”, secondo un informato osservatore di questioni strategiche internazionali – prosperità fa rima con indipendenza. Pur consapevoli che le preoccupazioni economiche in materia di difesa e sicurezza sono recenti, a “Mars” si costringono a tenere a mente le nuove priorità economiche (o meglio finanziarie) dettate dai mitizzati “mercati” internazionali e soprattutto dalle autorità europee. L’efficienza e la redditività, quindi, rientrano anche tra le loro priorità. E proprio dall’attenta analisi dell’efficienza e della redditività, pure sociale, degli investimenti nell’industria della difesa e della sicurezza ne hanno tratto l’estrema convenienza per le casse pubbliche. Il valore moltiplicatore delle risorse dedicate a queste attività, infatti, rispetto a ogni euro investito è pari a 1,27 euro nel breve termine (due anni o meno) e a 1,68 euro nel medio termine (oltre i due anni). Questo vuol dire che gli investimenti nella filiera della difesa e della sicurezza non possono essere ritenuti un centro di costo giustificato meramente da necessità strategiche ma costituiscono un primario volano di sviluppo economico. Gli investimenti in questo comparto, inoltre, per la loro estrema tracciabilità hanno ricadute fiscali rilevanti. Oscillanti tra il 50 e il 100 per cento dell’investimento a seconda del minore o maggiore coinvolgimento del perimetro produttivo nazionale nell’attività della filiera. Un coinvolgimento che è sostanzialmente protetto dalle regole dell’Organizzazione mondiale del commercio e in parte anche dalla tutela della concorrenza in ambito comunitario. Infine, ma non per importanza, per “Mars” è rilevante l’occupazione qualificata garantita da questo comparto industriale, molto difficilmente a rischio di “emigrazione” fuori dai confini nazionali e di conseguenza presidio di sicurezza sociale in tempi di crisi, e non solo.

Quanto pesa l’A&D in Italia

Fatti i debiti paragoni, in termini generali quanto vale per la Francia, vale per l’Italia. L’aerospazio e difesa pure nel nostro Paese hanno una rilevanza economica e sociale molto elevata, come spiegano i numeri dell’Aiad, l’Associazione delle imprese italiane dell’aerospazio e difesa, presieduta dall’ex sottosegretario Guido Crosetto. Con oltre 4mila imprese, il comparto genera un fatturato totale di circa 13,5 miliardi di euro (che sale a 16 miliardi con l’apporto delle attività indirette), per il 70 per cento frutto delle esportazioni, con 45mila addetti diretti e altri 120mila indiretti. Il suo valore aggiunto, apporto indiretto compreso, tocca i 12 miliardi, un livello elevatissimo. Tanto per occupazione quanto per valore aggiunto il rapporto con il fatturato è il più alto dell’industria manifatturiera nazionale. Gli investimenti in ricerca, sviluppo e innovazione sfiorano il 10 per cento dei ricavi. E il gettito fiscale complessivo si ferma poco sotto i cinque miliardi, di cui 1,7 generato direttamente in Italia. Su questo quadro in apparenza roseo si allungano, però, ombre inquietanti. Dal 2017 le esportazioni italiane accusano un forte calo: il controvalore è passato da 14,6 miliardi a poco più di cinque miliardi l’anno scorso. E quest’anno non sembra far prevedere una impennata, tutt’altro. Dopo un calo costante degli investimenti nazionali, nel 2018 e nel 2019 era stata registrata una lieve ripresa (tenendo conto che oltre il 70 per cento del budget finisce in spese per il personale), soprattutto grazie agli interventi del ministero dello Sviluppo economico, ma la crisi da pandemia probabilmente ha costretto il governo a innestare la retromarcia. Del resto, l’Italia non è isolata nella sua politica. Drastico è stato anche il taglio apportato da Bruxelles ai fondi per la difesa precedentemente preventivati, con il rischio di ammazzare nella culla la politica unitaria, che peraltro si stava dimostrando una intesa franco-tedesca.

Attenzione ai “vorrei, ma non posso”

Il settore dell’aerospazio & difesa, insomma, può ambire a divenire un volano dell’auspicata ripresa economica italiana nonché, in ottica più strategica, a garantire al nostro Paese un ruolo chiave in ambito internazionale, un ruolo che giocoforza implica ricadute socio-economiche importanti. In questa maratona l’Italia rischia già, purtroppo, di partire con una gamba legata. Un sottosegretario di Stato, a esempio, ha riconosciuto che l’aerospazio è “una delle aree tecnologicamente avanzate su cui investire” in quanto può favorire “un salto di qualità nel processo di modernizzazione”. Ma si è limitato a parlare di “aerospazio”, evitando di ricordare l’altra gamba del comparto: la “difesa”. Potrebbe essere la sua soltanto realpolitik, per evitare di cozzare contro le sempre pronte a insorgere “anime belle” del pacifismo nostrano? Potrebbe essere. L’effetto duale dell’innovazione, ricerca e sviluppo – va tenuto presente – se vale nella trasmissione militare-civile potrebbe valere anche in direzione opposta. Del resto, sono più significativi alcuni dei progetti presenti nella bozza di documento che il ministero dello Sviluppo economico ha inviato a Palazzo Chigi in vista della predisposizione da parte del governo del Recovery Plan per accedere alle risorse del Next Generation Eu (ammesso che questi fondi siano effettivamente erogati). L’aereo da combattimento “Tempest”, l’elicottero-del-futuro e il “green vessel” rientrano nel piano. Complessivamente prevedono investimenti per 13,5 miliardi. Ma si tratta di proposte, legate peraltro a un piano europeo ancora in fase di avvio e al quale non difettano le fragilità, politiche ed economiche. Di fronte a eventuali investimenti futuri, si erge l’amara realtà quotidiana. Lo dimostra il comportamento italiano rispetto al “Tempest”. Non c’è dubbio che il nostro Paese per una volta negli ultimi anni abbia adottato una scelta coraggiosa in materia di politica industriale e della difesa. Ma a questa scelta il governo italiano ha aggiunto poco o niente. Nello scorso settembre le industrie di Regno Unito, Svezia e Italia (i Paesi promotori del progetto di aereo da combattimento) hanno raggiunto un accordo per coordinare la loro attività per quanto attiene al velivolo, ai sistemi di bordo, alla propulsione e all’armamento del “Tempest”. Senonché da parte del governo italiano non si ha notizia di nessuna dotazione di fondi al nuovo programma. Benché non si tratti di investimenti particolarmente onerosi, per ora. Londra, a esempio, ha previsto uno stanziamento annuo di circa 300 milioni di euro nella fase iniziale. Roma neanche questo. E’ arduo in tali condizioni riuscire a coniugare – come sono convinti a “Mars” – prosperità e indipendenza. Ma pare anche arrivato il momento di chiedersi se il nostro Paese possa pensare di vivere di sussidi e prestiti in eterno senza incamminarsi rapidamente sulla strada del Venezuela. Ma questa, come diceva Rudyard Kipling, sarebbe un’altra storia.