Il Gender pay gap, che possiamo tradurre come divario o differenza retributiva di genere cioè disparità nel trattamento salariale fra uomini e donne, è locuzione relativamente nuova nell’ambito sociologico.
Come problema esso fa la sua prima apparizione già nei Trattati Europei di Roma del 25 marzo 1957 che istituivano la Comunità Economica Europea. L’articolo 119, in materia di disposizioni sociali, infatti recita: “Ciascuno Stato membro assicura … l’applicazione del principio della parità delle retribuzioni fra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro”.
Il tempo intercorso da allora ha affievolito, ma non certo eliminato tali disparità che, almeno in Italia, rimangono assai rilevanti. Per “gender pay gap” s’intende, in accordo alla definizione tecnica dell’Eurostat, la differenza tra i compensi orari lordi di uomini e donne. Tale differenza è calcolata sugli stipendi versati dalle aziende (con dieci o più unità) ai dipendenti prima delle detrazioni fiscali e della contribuzione previdenziale.
In Italia, secondo le rilevazioni dell’Unione Europea, il divario di genere si attesta attorno a un lusinghiero 5% generale (il che indica, quindi, che il lavoratore maschile percepisce in media un compenso del 5% superiore alla lavoratrice); un dato reso ancor più esaltante se confrontato con la media UE del 15%.
Qui si apre, però, una prima incongruenza poiché alcuni studi di settore dissentono fortemente da tale rilevazione.
Secondo una ricerca Lenstore nel settore sanitario, infatti, lo squilibrio salariale fra uomini e donne attesta l’Italia al ventitreesimo posto (su trenta) in Europa per virtuosità: la differenza media salariale è nell’ordine del 23,7%, una cifra ben più consistente dell’esiguo 5% sopra citato e assolutamente degna di nota poiché la presenza femminile in tale segmento economico è del 71,4%.
Di più. Una rilevazione pubblicata sul sito True Numb3rs, sempre nel settore della Sanità, conferma sostanzialmente il dato di Lenstore: qui il gap accertato è del 22,7%: “[Il dato] che … stupisce è quello riguardante il settore sanitario. È tra quelli in cui le donne sono più presenti, considerando anche il crescente numero di studentesse di medicina … E ci si potrebbe forse aspettare una maggiore uguaglianza non essendo un ambito in cui la carriera conta come altrove. Non dimentichiamo però che nel settore non vi sono solo medici ma anche infermieri, OSS, operatori delle case di riposo. E in Italia più che all’estero in questi ultimi casi vi è quasi un monopolio femminile. È chiaro che se tra i primari prevalgono gli uomini e invece questi ultimi sono una assoluta rarità tra gli OSS, gli stipendi medi maschili saranno decisamente più alti di quelli femminili, del 22% secondo Eurostat”.
Tali numeri, di certo non confortanti, trovano un recente quanto autorevole riscontro in un passo del discorso programmatico al Senato del nuovo Presidente del Consiglio Mario Draghi in cui afferma: “La mobilitazione di tutte le energie del Paese nel suo rilancio non può prescindere dal coinvolgimento delle donne. Il divario di genere nei tassi di occupazione in Italia rimane tra i più alti di Europa: circa 18 punti su una media europea di 10. Dal dopoguerra ad oggi, la situazione è notevolmente migliorata, ma questo incremento non è andato di pari passo con un altrettanto evidente miglioramento delle condizioni di carriera delle donne. L’Italia presenta oggi uno dei peggiori gap salariali tra generi in Europa, oltre una cronica scarsità di donne in posizioni manageriali di rilievo”.
Come stanno, quindi, le cose? Esiste o non esiste questo divario in un settore, come quello della Sanità, in cui la presenza femminile è ampiamente sovrastante?
È l’economista Luisa Rosti, veterana degli studi nel settore gender gap a sciogliere l’apaprente dilemma: “… L’Unione europea indica un divario del 5% a fronte di una media Ue del 15%, ma si tratta di un dato relativo al gender pay gap non ‘aggiustato’ [not adjusted] che rappresenta solo una parte minoritaria della disparità di retribuzione complessiva tra uomini e donne perché misura la differenza tra i salari orari medi espressi in percentuale del salario medio maschile. Se si considera la retribuzione annua invece della retribuzione oraria, il differenziale si allarga in conseguenza del minore numero di ore lavorate della componente femminile. E aumenta ulteriormente se si tiene conto del basso tasso di occupazione delle donne che, pur avendo le stesse caratteristiche produttive degli uomini che lavorano, restano inattive (di propria scelta o per decisione altrui), e sono quindi a salario zero”.
La differenza salariale, quindi, riproduce gli squilibri che ogni donna si trova inevitabilmente ad affrontare nella vita quotidiana: la maternità, a esempio, induce a confinarsi in ambiti lavorativi tradizionali e limitati (la cosiddetta segregazione orizzontale) e a ricorrere strutturalmente al part time.
Nell’ambito sanitario, se tale ultima soluzione permette una più serena conciliazione tra lavoro e cura familiare, d’altra parte, oltre ad abbassare il numero di ore lavorate annue, non consente alle donne un impegno continuo volto a realizzarsi a pieno nella professione.
In una dettagliata ricerca dell’Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari (APSS) di Trento, assai degna di fede poiché i numeri risultano simili a quelli nazionali, si legge: “Il 34% dei lavoratori … ha beneficiato di una qualche forma di riduzione di orario, part-time o aspettative con riduzione economica, ma sono soprattutto le donne … Il 44% delle dipendenti … lavora a tempo parziale contro il 9% dei colleghi maschi … nel dettaglio … il 47% delle donne del comparto e il 21% delle donne della dirigenza lavorano ad orario ridotto contro rispettivamente l’11% e il 3% dei colleghi uomini”.
È del pari inevitabile, quindi, come un massiccio ricorso al part time rallenti la scalata ai vertici professionali e, quindi, si ripercuota sull’entità della retribuzione (e qui siamo in presenza della segregazione verticale). Nell’esempio trentino, infatti, le donne rappresentano, come nell’intero paese, oltre il 70% della forza lavoro, ma quando si indaga l’ambito dirigenziale ci si accorge che la percentuale scende al 48,8% sino a diradarsi ulteriormente in caso di mansioni apicali d’una struttura complessa (15%).
Anche nell’ambito della Sanità, insomma, l’elemento femminile è bloccato nell’emancipazione piena dal “glass ceiling”, un soffitto di cristallo invisibile (ma ben presente) secondo la felice metafora coniata, già nel 1984, dal giornalista Gay Bryant su “Adweek”.
Per eliminare questo impedimento l’Unione Europea ha deciso di porre in campo una strategia per la parità di genere che svilupperà i propri effetti nel quinquennio che stiamo vivendo, 2020-2025.
Essa si basa principalmente sul contrasto alle due forme di segregazione già citate.
La segregazione orizzontale va combattuta indirizzando da subito le ragazze verso una formazione che le distolga dai consueti sbocchi lavorativi. Un incoraggiamento fattivo, quindi, nei riguardi dei corsi di laurea, dottorato e specializzazione STEM (tecnico-scientifici) che presenta un triplice vantaggio permettendo una più agevole ricerca dell’occupazione (il 90% la trova entro il primo anno), di raggiungere mansioni più riccamente retribuite (+ 16,4% rispetto alle mansioni non STEM) e di “invadere”, come detto, settori occupazionali in cui è largo il predominio maschile.
La segregazione verticale, invece, a favore della quale operano negativamente anche fattori psicologici (è dimostrato che, a parità di curriculum, si preferiscano dirigenti uomini), va invece costantemente monitorata in modo da intervenire efficacemente, nel tempo. L’art. 46 del Codice delle Pari Opportunità approvato nel 2006 statuisce, a tal proposito, che “le aziende pubbliche e private che occupano oltre cento dipendenti sono tenute a redigere un rapporto almeno ogni due anni sulla situazione del personale maschile e femminile”. Una fotografia del presente che, se prontamente resa accessibile, consentirebbe di individuare l’azione più consona al contrasto del fenomeno in un ambito, quello sanitario, che la pandemia sta spingendo a uno sviluppo di portata epocale.
A questa strategia si affiancherà nei prossimi anni, come assicura Helena Dalli, Commissaria UE alle Pari Opportunità, il rilancio del piano per le quote femminili nei consigli di amministrazione delle società quotate in Borsa – un rilancio che, tuttavia, in parte potrebbe in parte abbandonare l’obbligatorietà delle quote rose per favorire l’approccio volontario sulla falsariga dell’esempio inglese dove la presenza femminile nei board delle maggiori aziende FTSE veleggia verso il 30%.